Refrattario a mostrarsi in pubblico, ostile a disseminare più notizie del necessario sul suo conto, e, di conseguenza, pressoché sconosciuto anche a gran parte di quel pubblico che ama tanto definirsi “alternativo”, ciò che rende Alexander Tucker un personaggio oscuro e affascinante non è, però, la sola evanescenza mediatica. La sua musica è sfuggente, impalpabile e surreale, ma allo stesso tempo robusta nelle melodie e nelle elaborate textures. Un’apparente antitesi in perfetto equilibrio però nelle tessiture psych-folk-drone del musicista di Kent, che ha finora rivelato al mondo quattro raccolte di brani inediti, di cui le ultime due, “Forrowed Brow” (2006) e “Portal” (2008), hanno evidenziato la grande crescita dell’autore e lo hanno spinto fino all’avamposto qualitativo nel panorama folk e dintorni. Insieme alla Decomposed Orchestra, ensemble di musicisti che lo accompagna nei live-shows, Tucker esce adesso con questo nuovo ep di sole tre tracce per “Latitudes”, la serie di release inaugurata dalla Southern Records come omaggio al contributo che John Peel, col suo leggendario programma alla BBC Radio 1 (le celeberrime “John Peel Sessions”, per intenderci), ha dato al mondo della musica. Grey Onion recide i tiranti terrestri e fluttua tra i pigmenti della mente per venticinque minuti abbondanti, ribadendo le architetture compositive caratteristiche di Tucker: a) iterazione quasi ostinata del tema melodico, l’unico per tutto il brano, la cui unica ma preziosa elaborazione consta nella progressiva sovrapposizione di strati sonori, principalmente di chitarra che accenna “assoli” (le virgolette sono indispensabili in questo caso) su scie droneggianti; b) giustapposizione della stessa linea vocale (registrata due volte e le due tracce vengono poste una sopra l’altra) per conferire un tono corale e a momenti ieratico al brano, col timbro lievemente androgino di Tucker a rendere alieno e straniante il corpus prodotto. Il battesimo dell’anima del disco è affidato ai pochissimo meno che dieci minuti di Golden Dome, che sgorga fuori deambulando con la stessa cadenza dei Penguin Café Orchestra e coi fiati che, prima dell’escursione finale volutamente scordata e sghemba, sostengono l’accento ritmico. Come da copione, struttura scheletrica che va innervandosi secondo dopo secondo, in un certosino lavoro di arrangiamento che è come il procedere di un funambolo sopra una fune fatta di filo spinato. E’ intrappolata nei dissidi tonali di un cluster che è come la riproduzione del trasfigurato brusio di un vespaio, invece, Algae Age, che è un plasma sonoro che ricorda la colla amniotica di “Soundtrack For The Blind” degli Swans. Ma è giunti alla terza e ultima fermata di “Grey Onion” che Alexander Tucker e la sua Decomposed Orchestra strappano applausi tanto intensi da scorticarci le mani: la title-track è una delle composizioni in assoluto più belle tra gli spartiti del chitarrista britannico. Il soffuso e incerto incipit rivela la sua vera essenza con l’ingresso della voce di Tucker, che intona una melodia sofferta ma di una disarmante semplicità, accentuata dai toni minori del sostegno strumentale. Ripetuto fino allo sfinimento quasi come una preghiera, il motivo si insinua e si incastra tra i solchi della carne e vi si radica. Un pezzo da brivido da otto minuti e mezzo. Senza se e senza ma, “Grey Onion” non fa che ribadire la classe sopraffina di un quasi sconosciuto autore che meriterebbe un audience decisamente superiore, visto quel che circola nel panorama musicale contemporaneo. La sua musica, contemporaneamente arcana e moderna, elitaria ma pur sempre fruibile, complessa ma rappresentata con elegante semplicità, la sua musica è una gemma preziosa che i più accorti, ne siamo certi, non si faranno sfuggire.
(2010, Southern)
01 Golden Dome
02 Algae Age
03 Grey Onion
A cura di Marco Giarratana