Con “Don’t Look Away” (2018) Alexander Tucker aveva chiuso la trilogia cominciata con “Dorwytch” nel 2011 e proseguita poi con “Third Mouth” nel 2012. Il disco mostrava uno stile rinnovato e una proposta più diversificata rispetto al passato: ricordo che a suo tempo parlai di giusti riferimenti alla sensibilità e alla scrittura di Ian Curtis e dei Joy Division, cui del resto lo stesso titolo poteva rimandare. E in effetti c’era stata in quel caso una convergenza tra uno stile tipicamente John Fahey e gli accostamenti vari a Jackie-O Motherfucker, Ben Chasny e fino ai Sunn O))). Certo, il disco aveva comunque un suo corpus ben definito, ma allo stesso tempo era in qualche modo un disco di passaggio e manifestava una certa insofferenza a stare entro i confini di un determinato “range”, che evidentemente gli andava stretto. Era il momento di trovare una chiave di lettura per mettere le cose in un nuovo ordine: un processo che non si può ridurre solo a una questione di suono e richiede un percorso più ampio e personale, che nel caso di Alexander Tucker è consistito nel mettere assieme un po’ tutto il suo immaginario concettuale per poi trovare in questo grande campo, due/tre riferimenti fondamentali, pure storici, attorno ai quali fare un’intera rivoluzione.
L’artista si rivolge quindi a diversi interessi e in particolare al mondo della letteratura. Il titolo stesso del nuovo album, Guild Of The Asbestos Weaver, rimanda a “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, ma sono menzionati come fonti di ispirazione anche H.P. Lovecraft e Alan Moore e l’album stesso è presentato come una raccolta di racconti che hanno effettivamente un proprio carattere distopico: al centro ci sono tematiche che destano forti inquietudini, anche rappresentazioni visive apocalittiche, è un disco di stretta attualità (come si fa a non pensare a immagini come quelle cui assistiamo in questi giorni, lo scioglimento dei ghiacci, gli incendi in Amazzonia e poi la centrale nucleare nell’ex Unione Sovietica) ma che, riprendendo sempre uno dei riferimenti dell’autore, cioè Angus MacLise, poeta e primo batterista dei VU, colui che coniò la definizione “dreamweapon”, possono essere combattute attraverso i sogni e forme alternative di percezione.
L’approdo finale è quello a una forma compositiva minimalista drone che si sovrappone al suo modello standard e che si avvicina molto alla solennità e alla sacralità delle “cattedrali oceaniche” di John Foxx. I pezzi di “Guild Of The Asbestos Weaver” sono delle vere e proprie opere sinfoniche: il suono dei synth è spettacolare e si stende sull’intera opera in una maniera cosmica che copre tutte le sfumature della paletta di colori, trasmettendo vibrazioni energetiche positive che hanno la reminiscenza di una vena pop (penso in particolare ad alcune esperienze degli anni Ottanta e comunque ad esempio a Mark Hollis) e allo stesso tempo un accento Canterbury.
Certo, le meccaniche e il drone di Artificial Origin e Montag (possiamo qui pensare a un compositore alto come John Cale) rendono in maniera forte gli incubi distopici e gli immaginari post apocalittici dominati da impazzimenti di nanotecnologie come invasioni di cavallette, eppure anche qui e pure nelle pieghe più malinconiche di Precog, se non nella maestosità Harmonia di Energy Alphas e l’elegia celestiale di Cryonic, non vi dobbiamo cogliere catastrofismo. Gli intenti dell’autore e le sue capacità compositive evidenti come tecniche, ma questo risulta chiaro dall’ascolto, sono invece quel grandangolo da dove guardare in maniera attenta e razionale, quindi consapevole, a quello che succede e che ci circonda e non un ammonimento, ma la spinta alla riflessione e all’azione, non un manifesto, ma più esattamente – come detto – delle storie. E tutto questo funziona in una maniera terribilmente convincente.
(2019, Thrill Jockey)
01 Energy Alphas
02 Artificial Origin
03 Montag
04 Precog
05 Cryonic
IN BREVE: 4/5