“I’m not a big fan of guitar or melody”, dice Alexis Marshall nella bella intervista con Anthony Fantano – una delle poche in giro. Non che l’utilizzo tradizionale dello strumento sia il punto cardine dei Daughters, dei quali Marshall è il cantante. Diamine, non c’è niente di convenzionale nei Daughters, che con il loro album di ritorno da otto anni di silenzio (“You Won’t Get What You Want” del 2018) hanno fatto innamorare critica e pubblico, passando da una band underground largamente rispettata ad una forza con cui fare i conti, i cui live sono attesi come il passaggio del messia e vengono vissuti con intensità, trasporto, disperazione. Noise, rock, whatever. Ascoltandone la musica, in costante evoluzione, è quasi surreale pensare che per Alexis Marshall possano avere un che di convenzionale, magari nell’organizzazione, nella struttura della band. Ma questo è in fondo ciò che accade quando si è insieme ad altre persone: ci si pone dei limiti che risiedono nella libertà di espressione altrui. Si mette la propria individualità al servizio del collettivo.
Alla prima esperienza solista, Marshall porta con sé Jon Syverson (batterista dei Daughters) ed Evan Patterson (Young Widows) e dirige il gioco dettando delle semplici regole che definiscono il suono dell’album: al bando la perfezione e/o la ricerca di essa. Al bando la struttura, il ritornello, quello che cazzo è. I suoni sono catene, monete che rotolano su un piano metallico, roba che sbatte, roba che si rompe, furia sonora, mesta recitazione, urla che lacerano l’anima, te la strappano dal corpo e te la restituiscono in mano come uno straccio vecchio.
House Of Lull . House Of When, l’esordio in long playing per Marshall solista, non è un disco che si ascolta mentre si lavano i piatti, si rassetta il soggiorno o si segue la lezione di spinning su YouTube, lasciate perdere. È come sedersi a teatro per vedere una performance: di certo non lo si fa con una bottiglia di Fairy Platinum e i guanti di lattice al seguito. Si ascolta, con attenzione; con attenzione, in un’epoca nella quale non si riesce a vedere un film senza controllare centotrenta volte qualche stronzata sul cellulare, nella quale non si ascolta una canzone intera perché dopo un minuto l’attenzione vaga da qualche altra parte, affanculo probabilmente.
Le quattro guide che tracciano una linea nel caos sono la voce di Marshall, occasionalmente affiancato da Kristin Hayter ovvero Lingua Ignota, un’altra delle voci più interessanti della musica sperimentale degli ultimi anni, con la quale Marshall aveva collaborato come ospite già qualche tempo fa nella cover di “Wicked Game” di Chris Isaak (sì, è totalmente disturbante come potete facilmente immaginare); poi c’è la batteria, il cui suono è stato modellato per richiesta di Marshall dal produttore Seth Manchester su quello potente, brutale di “Avalanche”, la potentissima cover di Leonard Cohen che Nick Cave piazzava quasi quarant’anni fa nel suo esordio con i Bad Seeds, “From Her To Eternity”; infine, delle linee di piano e delle onde di feedback, le prime che fungono come unico, a tratti dissonante ma unico, appiglio melodico dell’intero album, mentre le seconde forniscono un tappeto sonoro abrasivo.
Su questi quattro punti fermi si innestano gli “strumenti non convenzionali” menzionati sopra. Caos? Sì, ma non caso. Marshall ha lasciato liberi i suoi collaboratori, fungendo più da direttore dei lavori (similitudine mai adeguata come in questo caso, vista la quantità di strumenti del mestiere) che da “io-sono-l’artista-e-voi-i-miei-strumenti” e il risultato è uno straordinario substrato sonico per la performance del suo protagonista, che si muove tra tensione e catarsi, tra furia e riflessione. Un’opera ispirata dal nuovo significato che ha per l’artista la gioventù dopo la paternità, sulla “mancanza di un reale apprezzamento per quanto sia importante essere giovani”.
Senza dubbio potremmo stare qui a fare paragoni e snocciolare influenze: Nick Cave, Swans, Scott Walker, naturalmente; Einstürzende Neubauten e l’industrial in generale; PiL, Glenn Branca, persino alcuni sperimentatori italiani come Giacinto Scelsi. Esercizio sterile, e lo ha già fatto lo stesso autore in un’intervista al Brooklyn Vegan in maniera più interessante di quanto possa fare qualunque altro stronzo dietro una tastiera. Potremmo citare alcuni dei mantra che pervadono tratti dell’album (“The past is like an anchor!”, ripete drammaticamente nell’introduttiva Drink from The Oceans . Nothing Can Harm You), ma la realtà è che questo ottimo esordio, per certi versi molto lontano dall’esperienza dei Daughters, è un’esperienza molto personale, che va ascoltato prendendosi il tempo necessario e apprezzandone i caotici ma non casuali dettagli.
(2021, Sargent House)
01 Drink From The Oceans . Nothing Can Harm You
02 Hounds In The Abyss
03 It Just Doesn’t Feel Good Anymore
04 Youth As Religion .
05 Religion As Leader
06 No Truth In The Body
07 Open Mouth
08 They Can Lie There Forever
09 Night Moving
IN BREVE: 4/5