Una scura spina dorsale di archi si distende, puntellata da due colpi di tamburo e un battito di mani che si ripetono con cadenza ossessiva. Da qualche parte, emerge un coro dimesso che riveste di una pelle nera questa belva cheta solo in apparenza, la cui voce è prima rassegnata, poi sale e sale, prende coraggio e sentenzia versi amari che solo proiettili. È Remains e comincia così l’esordio omonimo degli Algiers, uno dei più seri candidati alla palma di Disco dell’Anno.
Il trio è originario di Atlanta ma il cantante afro-americano Franklin James Fischer vive a New York, mentre Ryan Mahan (basso) e Lee Tesche (chitarra e programming) a Londra, queste undici canzoni nascono da un fitto scambio di file, di certo influenzato dai diversi contesti metropolitani in cui i tre musicisti vivono. E sin dalla ragione sociale, Algiers (la capitale dell’Algeria, teatro di scontri durante la Primavera di Algeri del 1988) promette testi di fuoco. I tre prendono a pugni la Storia Americana, una narrazione di tre secoli e mezzo impregnata di oppressione, sangue, menzogne e segregazione razziale. Prima dell’uscita dell’album è bastato fare un salto sulla home del sito del gruppo per comprendere che, più che una band, qui siamo al cospetto di un complesso costrutto culturale: citazioni politiche e un collage trasversale di personaggi storici, da Malcolm X a Jodorowsky, da Angela Davis ai Public Enemy.
Il cantato di Fischer dà una forte connotazione “nera” a tutte le canzoni. Per credere, basta toccare con mano il feroce gospel di Blood o l’alienante swing di Black Eunuch. Si attraversano tantissimi linguaggi sonori senza incontrare una crepa o una cicatrice, è un tessuto unitario e uniforme in cui si rincorrono e mescolano soul, gospel e blues ma anche post-punk, new wave, industrial, trip hop, elettronica. Sulla carta, qualcosa di impossibile, eppure irrompono Old Girl col suo irruento afflato rock e Irony. Utility. Pretext. che ci schiaccia la testa con il peso della ferraglia industriale, quasi a echeggiare i Nine Inch Nails di “Pretty Hate Machine” e si continuano a vedere, laggiù in fondo, le ombre di quei disgraziati oppressi dal dominio bianco e dalla schiavitù nei campi.
“Algiers” è un enorme melting pot in cui trova spazio pure il pop fluido ed efficace di But She Was Not Flying, probabilmente il picco massimo di ispirazione dell’intera opera, ma è difficile determinarne uno con certezza. Anche perché la coda finale non abbassa l’intensità emotiva, ci si lascia trasportare via dalle onde notturne di Games e si viene colpiti alle viscere dal blues primordiale di In Parallax, altro strepitoso asso calato sbattendo il pugno sul tavolo.
“Algiers” parla di lotte razziali che credevamo erroneamente defunte e che i recenti fatti di violenza da parte della polizia americana verso cittadini di origini africane hanno fatto riemergere dall’abisso dell’indifferenza, sgretolando le certezze di chi pensava che certe cose appartenessero al passato. Questo è un disco che forse nessuno avrebbe mai pensato sarebbe stato possibile scrivere tanto è complesso, ricco e sfuggente. Gli Algiers celebrano il funerale del Sogno Americano, noi uno degli esordi più incredibili degli ultimi anni.
(2015, Matador)
01 Remains
02 Claudette
03 And When You Fall
04 Blood
05 Old Girl
06 Irony. Utility. Pretext.
07 But She Was Not Flying
08 Black Eunuch
09 Games
10 In Parallax
11 Untitled
IN BREVE: 4,5/5