Fosse solo per l’aver trovato la forza di andare avanti, sotto la stessa ragione sociale, nonostante la traumatica perdita del proprio faro, agli Alice In Chains andrebbe perdonato tutto. A Jerry Cantrell la personalità non è mai mancata, così come il mestiere, e infatti dal 2006 della reunion con William DuVall alla voce in poi, gli Alice In Chains hanno dato fondo al proprio bagaglio d’esperienza per sopravvivere a un sigla pesante come un macigno e a un nome circondato da un’aura di leggenda come quello di Layne Staley. Il risultato sono stati due dischi, “Black Gives Way To Blue” del 2009 e “The Devil Put Dinosaurs Here” del 2013, che pur non sfiorando nemmeno i livelli degli Alice In Chains pre-2002 hanno degnamente giustificato i tour in giro per il mondo e suggellato la rilevanza di Cantrell tanto all’interno della propria band quanto del panorama alternative statunitense dei Novanta.
E anche in questo Rainier Fog è proprio lo stile del chitarrista a fare la differenza: l’incedere sabbathiano, il tocco dilatato, sono inimitabili e questo lo sapevamo già, ma che potessero resistere così bene al trascorrere del tempo lo stiamo scoprendo solo con gli anni, apprezzando ancora nuovi riff che di nuovo hanno ben poco ma che non accennano a stancare. Qua e là puntano sempre al passato ma senza furbizia e/o secondi fini, più come un DNA impossibile da disconoscere. Su questo Cantrell ha costruito anche il terzo lavoro post reunion, oltre che sulla ormai rodata sinergia con DuVall, che in oltre dieci anni nella band è ormai pienamente nelle condizioni di spartirsi le parti vocali con Cantrell senza soccombere ma senza eccedere in un protagonismo che potrebbe nuocergli.
Registrato a Seattle – e si tratta della prima volta in oltre vent’anni che gli Alice In Chains tornano a casa per incidere, non a caso il titolo stesso fa riferimento al Monte Rainier che si staglia qualche decina di chilometri fuori dalla città – l’album vanta almeno una manciata di pezzi che colgono nel segno: il basso granitico che serpeggia in Drone, la lunga (sette minuti) e malinconica ballad conclusiva All I Am e, soprattutto, So Far Under. Qui siamo dalle parti di “Dirt” (1992), senza voler essere blasfemi, una roba che conosciamo a menadito ma che appena viene fuori non può che provocarci un brivido lungo la schiena, con gli strappi di Cantrell che fanno sobbalzare.
Non tutto funziona però alla perfezione, vedi ad esempio Never Fade, banale scivolone che Cantrell avrebbe potuto risparmiarsi, oppure passaggi come Fly e Maybe in cui riecheggiano un po’ troppo ballatone epocali del calibro di “Heaven Beside You” e “No Excuses”. Ma nel complesso “Rainier Fog” fa il suo in maniera onesta, mantenendo in vita una band che non ha saputo – né voluto, immaginiamo – riciclarsi ma che in fondo può anche andare benissimo così a chi interessa seguirli, ancorata a formule storicamente circoscritte che sanno ancora farsi valere.
(2018, BMG)
01 The One You Know
02 Rainier Fog
03 Red Giant
04 Fly
05 Drone
06 Deaf Ears Blind Eyes
07 Maybe
08 So Far Under
09 Never Fade
10 All I Am
IN BREVE: 3/5