Ho sempre una paura fottuta quando devo approcciarmi per la prima volta a un nuovo album di una delle band che mi hanno svezzato. L’affezione e il bagaglio di ricordi confliggono con lo stato della realtà attuale, che nel caso di rischiose reunion è spesso avvilente.
Tra sopravvissuti (Pearl Jam) e ricostituiti (Soundgarden), gli Alice In Chains sono stati tra gli esponenti del Seattle-sound che più mi hanno convinto negli ultimi anni. “Black Gives Way To Blue” mi aveva fatto superare lo shock di ritrovarmi al cospetto di un gruppo con quel nome ma senza Layne Staley. Non tanto perché William Duvall sia un cantante degno di rimpiazzarlo (la sola idea echeggia come una bestemmia urlata dentro la Basilica di San Pietro), ma perché le canzoni erano consistenti, non si sgretolavano con gli ascolti, non suonavano finte. Un po’ invecchiate, forse.
Il ritorno dopo 4 anni offre uno scenario ben diverso. Cantrell e compagni provano a mantenere viva la fiamma nera che ardeva nelle prove più sofferte e depresse del passato, vedi “Dirt” ma soprattutto l’omonimo del 1995. Le atmosfere di The Devil Put Dinosaurs Here sono cupe, rischiarate qua e là da qualche linea vocale che prova a far breccia nella spessa cortina di fosche nubi.
Si parte abbastanza bene con un filotto di canzoni iniziali apprezzabili. Cantrell estrae riffoni cazzuti che sottolineano l’etimo blacksabbathiano del gruppo, che appare in palla e ispirato, soprattutto nell’opprimente Pretty Done e nella fiammeggiante Stone. Voices è una di quelle ballad che parafrasano i lavori solisti del chitarrista, riprendendone la costa bucolica e che si apre ariosa nell’efficace ritornello.
La situazione, però, comincia a scricchiolare senza aver superato la prima metà della tracklist, per poi sbriciolarsi del tutto nel finale. “The Devil Put The Dinosaurs Here” è edificato interamente sul mestiere, suona forzato, a tratti noioso. Ci sono velleitari tentativi di riportare alla memoria perle del passato (la title-track fa il verso a “Love Hate Love”), c’è tanto manierismo e, cosa forse più grave, le canzoni sono troppo lunghe. Difetto passabile per una band alle prime armi, ma per dei navigati come loro è un peccato imperdonabile.
Tutte tracce sopra i 5 minuti che non godono di eclettismo nelle strutture e nei suoni, arrivare in fondo è una fatica immensa anche per un fedele seguace come il sottoscritto. Le emozioni che intridono canzoncine come Scalpel, Low Ceiling o la spossante Phantom Limb paiono confezionate nel più finto megastore del rock di peggiore foggia.
Tutto troppo ripetitivo, tutto senza un briciolo di spontaneità. Magari prendendo alcuni brani singolarmente (Lab Monkey, ad esempio), qualcosa si riesce a mandarla giù, ma un album va considerato nella sua interezza e non cavandone solo ciò che fa più comodo.
Trincerandosi dietro un rock da arena facilone e senza anima, alla lunga gli Alice In Chains rischiano di suonare come una cagosa copia dei Toto. Non bastano diluvi di voci armonizzate e qualche riffone piazzato qua e là per scampare alla miseria di un presente che non ha quasi più nulla da spartire con ciò che questo nome ha rappresentato per diverse generazioni. Un nome che non basta da solo a redimere una prova deludente e senza mordente. Che è, purtroppo, ciò che temevo.
(2013, Virgin / Emi)
01 Hollow
02 Pretty Done
03 Stone
04 Voices
05 The Devil Put Dinosaurs Here
06 Lab Monkey
07 Low Ceiling
08 Breath On A Window
09 Scalpel
10 Phantom Limb
11 Hung On A Hook
12 Choke