Dare alle stampe un album doppio – se non addirittura triplo, com’è avvenuto per lo strepitoso “Have One On Me” di Joanna Newsom lo scorso anno – nel panorama musicale odierno, con vendite di cd in continua flessione e con abitudini di ascolto in rapido mutamento, è di sicuro un azzardo. The Octopus è un’opera troppo complessa per l’ascoltatore medio contemporaneo, sommerso da una quantità terrificante di pubblicazioni mensili, abituato alle compilation-macedonia sul suo l’I-Pod e incalzato dalla crescente tendenza alla tuttologia che annacqua la cultura individuale non lasciando spazio all’approfondimento, in modo che l’intertesto, da verbo, possa convertirsi in carne di fronte ai pc. Per questo ci vuole davvero un gran coraggio a tornare sul mercato dopo quasi cinque anni di assenza con tanto materiale da costringere ad una ripartizione in due tomi. A Sel Balamir, Neil Mahony e Matt Brobin rivolgiamo quindi il nostro più sentito plauso di stima per la scelta controcorrente che stipula un patto implicito con l’ascoltatore: tornare più volte sulla scena dell’accaduto perché questa non è materia da un-ascolto-e-getta, tanto meno da vivisezionare per estrarne questo o quel pezzo e alienarlo dal contesto d’origine. Non fresco come i progressisti si attendono, neanche troppo vintage da rientrare nelle grazie dei conservatori all’ascolto, “The Octopus” dilata allo spasimo lo stile che la band di Manchester ha intagliato nel corso di sette anni di carriera. Ci sono tutti i tratti coi quali abbiamo familiarizzato nei loro precedenti lavori: il riffing teso e contorto; le splendide e mai scontate aperture melodiche di Balamir (che stavolta ne dosa per bene la quantità, pecca rilevante nel seppur ottimo “Insider”, afflitto qua e là da un “eccesso di voce”); gli inacidimenti timbrici della chitarra che si addentra nello spazio con visionarie esplorazioni; le snelle strutture ritmiche che non appesantiscono una scrittura già di per se cerebrale. Eccezion fatta per la superflua e prolissa intro The Ruiner, “The Octopus” non conosce cedimenti di sorta: in Minion’s Song la band azzarda orchestrazioni d’archi, riuscendo ad imprimere vigore all’imperiosa apertura corale; con The Wave e The Emperor sono rinverditi i fasti di “Superunknown” dei Soundgarden in un ottimo compendio tra aggressività rock e voce catchy; fascinosi arabeschi affiorano in Planet Of Insects, Golden Ratio e The Sick Rose, quest’ultima autentico piatto forte in pendant con Interstellar, discendente del dogma degli Hawkwind e dallo svolgimento ciclico con splendida chiusura “viaggiosa”; White Horses At Sea è un’elegante lento acustico che dichiara amore ai Porcupine Tree (il cui spirito aleggia costantemente, vedi ancheTrading Dark Matter In Stock Exchange – dove si intercettano oscurità degne di “Signify”, e Forever And More); dall’andatura pachidermica e minacciosa in Interglacial Spell, gli Amplifier soffiano poi fosche nubi sull’orizzonte della chiaroscurale title-track mentre la trasognata Bloodtest serpeggia sotto una nebbia cristallina. A differenza dei Dredg, grande delusione degli ultimi tempi e attesi al varco in primavera, gli Amplifier non semplificano la loro formula puntando ad un ampliamento del bacino d’utenza, bensì ne complicano i passaggi in una ricerca artistica arricchita anche da colti rimandi letterari (“The Sick Rose” è una poesia di William Blake). Questa è musica che richiede applicazione intellettuale e un certo investimento di tempo, bene sempre più pregiato nelle nostre convulse e asfissianti vite di uomini postindustriali, ma una volta sprofondati nell’abisso e giunti al cospetto del maestoso polpo dai tentacoli dalle ipnotiche movenze, sarete anche voi consci che il 2011 musicale ha già toccato uno dei suoi vertici.
(2011, Ampcorp)
– CD 1 –
01 The Ruiner
02 Minion’s Song
03 Interglacial Spell
04 The Wave
05 The Octopus
06 Planet Of Insects
07 White Horses At Sea – Utopian Daydream
08 Trading Dark Matter On The Stock Exchange
– CD 2 –
01 The Sick Rose
02 Interstellar
03 The Emperor
04 Golden Ratio
05 Fall Of The Empire
06 Bloodtest
07 Oscar Night – Embryo
08 Forever And More
A cura di Marco Giarratana