Che Dr. Dre abbia buon naso per il talento non è di certo una novità, quindi, quando l’anno scorso Anderson .Paak fece la sua comparsa in niente meno che sei delle 16 tracce del suo (di Dre) primo album in 16 anni, in molti prestarono orecchio a questa voce un po’ rasposa che passava da un rap morbido e dal flow sincopato ad un cantato che ricorda un po’ il grande Bobby Womack.
Per una volta giustificato, l’hype che ha preceduto questo Malibu ha fatto in modo che ricevesse l’attenzione che merita. Ma c’è da dire che se fosse uscito dal nulla, “Malibu” l’attenzione se la sarebbe comunque guadagnata già con i primi 30 secondi di The Birds, introdotta da un semplice riff bluesato di chitarra e da un beat, il testo chiave di lettura per il resto dell’album, la musica – calda, solare e malinconica ad un tempo – perfetto contrasto che trasforma la “solita” storia di una vita difficile in America, tra mamma che gioca d’azzardo e papà al gabbio, in un qualcosa che cattura immediatamente, non foss’altro per quel “See, I do the best I can” che arriva quasi alla fine, pieno di soul, scevro della noiosa boria di chi ti preme sulla coscia e poi ti chiede di indovinare se è il cazzo o la pistola, i patetici gangsta che in un mondo in cambiamento continuano a combattere la guerra nel modo più sbagliato.
“Malibu” arriva in un momento di fermento per il mondo della black music, mondo nel quale sono adesso emersi personaggi come Kendrik Lamar, Kamasi Washington e Flying Lotus e nel quale ha fatto il suo trionfale ritorno il black messiah D’Angelo, mondo che al momento sembra la fonte più sicura per trovare innovazione e qualità in mezzo alla reazionaria dittatura anni ‘80 dell’indie pop.
Anderson non è vecchio, ma non è un ragazzino e fa pesare la maturità delle proprie influenze r’n’b, soul e funk senza che per questo sfocino in parodie di genere, grazie anche alla qualità dei turnisti coinvolti, non ultimi gli onnipresenti (e straordinari) Palladino e Glasper a basso e tastiere. E quando si avventura in escursioni degne del citato Womack, come nella bellissima Put Me Through, sembra non ci sia il minimo sforzo, né l’ecletticità è di detrimento all’ascolto; anzi, gli spazi che si aprono in pezzi funky come Come Down o Am I Wrong? sembrano far scorrere meglio la tracklist.
Ed è proprio l’eclettismo e lo sfuggire alla categorizzazione che rendono Anderson .Paak e questo “Malibu” meritevoli di nota, ma il significato profondo è che senza la qualità e la cura che accompagnano ognuno di questi sessantuno minuti l’attenzione non durerebbe molto.
Anderson ha scomodato paragoni coi grandi del passato e del presente ed ha lavorato duro per meritarli: “I had to wake up, just to make it through / I got my patience and I’m making do / I learned my lessons from the ancient roots / I choose to follow what the greatest do”, narra in The Birds, e sta veramente cercando di fare ciò che i più grandi hanno fatto, cioè creare musica che sia intrattenimento ma che racconti una storia, in questo caso una storia che forse già abbiamo sentito, dato che in America, ed in particolare nella black America, ci sono tante storie tristi di ragazzi che “provano a farcela” quante sono le fottute stelle in cielo. Il talento di Anderson .Paak sta proprio lì: una storia che abbiamo sentito ma che suona come fosse nuova, e questo accade solo per la personalità dell’interprete, che riesce a dare unità d’intenti a una serie di influenze apparentemente sconnesse.
Anderson dovrà ripetersi per rimanere nell’Olimpo che si è guadagnato, ma al momento che si sia guadagnato l’Olimpo è fuor di dubbio.
(2016, Steel Wool / OBE / Art Club / EMPIRE)
01 The Bird
02 Heart Don’t Stand a Chance
03 The Waters (feat. BJ The Chicago Kid)
04 The Season/Carry Me
05 Put Me Thru
06 Am I Wrong (feat. ScHoolboy Q)
07 Without You (feat. Rapsody)
08 Parking Lot
09 Lite Weight
10 Room In Here (feat. The Game)
11 Waterfall (Interluuube)
12 Your Prime
13 Come Down
14 Silicon Valley
15 Celebrate
16 The Dreamer (feat. Talib Kweli, Timan Choir)
IN BREVE: 4,5/5