Incuriosisce fin dalla copertina, questo disco: un tronco d’albero che sembra segnare il passaggio a un rifugio incantato, con punte d’erba sempre più lucenti che si perdono fino all’orizzonte. Andrew Bird mi era un nome del tutto nuovo: dopo una breve ricerca, scopro che è un artista navigato, con svariati dischi alle spalle e anche una fitta collaborazione in un album di Will Oldham. Scruto la sua immagine e colpisce il suo sguardo malinconico ma acceso e vibrante, occhi e capelli notturni, profilo francese. Andrew ci accoglie nel suo personale rifugio con un accompagnamento di fischiettii e battiti di mani a suggerire un’atmosfera campestre, una moltitudine di arrangiamenti che sembrano voler imitare il brulichio degli insetti venuti allo scoperto dopo che fasci di luce hanno interrotto la coltre di nubi. Ogni strumento, guidato dal violino ora sfiorato ora pizzicato dallo stesso Andrew, si mantiene su un equilibrio leggero tra parsimonia e brio, ariosità ed intimismo, dosando il tutto con mano sapiente per non intaccare la magia raccolta di un luogo tanto vicino al cuore, sfiorandone i palpiti vitali con la delicatezza di una mano che va posandosi su spighe di grano. Seppur mantenendosi nel filone folk-pop, le sonorità schivano qualsiasi classificazione, risultando multiformi e variegate come l’universo che evocano: il violino, protagonista assoluto, diviene voce a sé stante, si impregna di tinte country per sfidare approcci jazz e tregue progressive. In mezzo a tanta meraviglia sonora, si rischia di dimenticare la prova canora di Andrew Bird, capace di aperture di velluto ma anche discese imperscrutabili, in alcune sfaccettature rimanda addirittura a quella di Mark Kozelek o di Jeff Buckley. Ecco quindi il fischio spensierato (onnipresente, come l’handclap) di Oh no, un’irresistibile batteria controtempo, l’incedere brizzolato d’allegria contagiosa, come una liberatoria corsa su un prato. Il testo fotografa l’esistenza di un gruppo di sociopatici, con toni così grotteschi che rischiano di suscitare fin ilarità. Calderone di stilemi, Masterswarm è tra i punti più alti del disco (sempre che ve ne siano di bassi): un intro notturno fa bruscamente spazio a un intermezzo dal sapore latino scandito dai singulti del violino, che prepara il terreno a un assolo impervio dello stesso, ora teso in tutta la sua magnificenza a scuotere l’aria, sul quale può finalmente librarsi la struggente voce di Andrew Bird, fragile e solitaria come una piuma al vento. Un aspetto intimista ancora più marcato in Effigy: arpeggi accarezzati di chitarra acustica e il rimpianto che trabocca agli angoli di ogni parola, una canzone degna del miglior Mark Kozelek. Fitz And The Dizzyspells è un’altra dimostrazione della padronanza di Andrew nel saper maneggiare svariate trame armoniche. Il violino pizzicato a narrare una sorta di risveglio strumentale (evocativo di quello primaverile di flora e fauna), in cui confluisce un ritmo arrembante e rustico di tessiture di chitarra e batteria, mentre la perfezione pop potrebbe benissimo essere rappresentata dai tre minuti di Nomenclature, dove il soave tono baritonale à la Rufus Wainwright lascia spazio a slanci e repentini cambio di tempo simil-Radiohead. Laddove, scandite dal mellotron, le suadenti sinuosità vocali di Not A Robot, But A Ghost richiamano alla mente quelle di Jeff Buckley (in particolare quello più alternativo di “Sketches”), s’addentra nell’atmosfera marina di Anonanimal, dove il canto subissato tra anemoni di mare terrorizzati dal contatto (curioso parallelo con l’esistenza umana, come tutto il disco) fluttua scintillante tra folate d’archi e accelerazioni ritmiche in un continuo perdersi e ritrovarsi, non lasciando che un ultimo struggente e primordiale bagliore di vita sul finire. Spuntano in Natural Disaster le malinconie più solari e pastorali di Nick Drake a dipingere un passeggiata solitaria in un parco londinese la domenica pomeriggio, ma si fa maggiormente pressante in The Privateers il sentore bucolico, fino a far vibrare sempre più l’aria sotto l’alternarsi incalzante del violino (davvero strepitoso) e della batteria. A corollario del disco, la splendida Souverian riaccoglie a sé nella prima parte gli echi drakeiani, poi sono solo le note di pianoforte centellinate come gocce di pioggia sul leggiadro tessuto vocale. E’ tempo di On ho!, titolo palindromo della canzone d’apertura, tempo di chiudere il cerchio, serrare i battenti di un prodigio senza tempo. Ma forse, se avvistate Andrew Bird tra i comuni mortali e riuscite a scorgerne un cenno d’intesa dietro la capigliatura, potrete anche voi riscaldarvi il cuore nel suo sottobosco incantato.
(2009, Fat Possum)
01 Oh No
02 Masterswarm
03 Fitz And The Dizzyspells
04 Effigy
05 Tenuousness
06 Nomenclature
07 Ouo
08 Not A Robot, But A Ghost
09 Unfolding Fans
10 Anonanimal
11 Natural Disaster
12 The Privateers
13 Souverian
14 On Ho!
A cura di Andrea Scatasta