Avete presente l’immagine di Angel Olsen durante l’esibizione per La Blogothèque, nel 2013? Le labbra sottili, una frangia asimmetrica che incornicia gli occhi socchiusi, il sorriso sornione, una performance scheletrica. Bene, dimenticatela e se non l’avete mai vista andate su YouTube, osservatela rispettando un religioso silenzio e poi dimenticatela. Che Angel Olsen fosse un costante mutamento di forme e suoni e una fioritura di qualcosa di meraviglioso ce n’eravamo già accorti nel 2016, quando con “My Woman” archiviò i due capitoli in chiave folk lo-fi per dare il benvenuto a una breve stagione alt-rock.
Quello che oggi, forse, stupisce di più della giovane cantautrice di St. Louis, è questa sua umanità multiforme tramite cui nasconde immagini e ibridazioni, del tutto inaspettate e apparentemente fuori contesto, dentro un illusorio classicismo standardizzato. Composto dalla Olsen, insieme ai collaboratori e amici Ben Babbitt e Jherek Bischoff, All Mirrors fa notare immediatamente l’inversione di tendenza della cantautrice americana: sintetizzatori al posto delle chitarre, shuffle al posto di batterie martellanti, arrangiamenti orchestrali che sostituiscono schemi lineari.
“All Mirrors” è un album carico della precisione che caratterizza gran parte della scrittura di Angel Olsen: il suo personale metodo auto-narrativo, grazie a cui emergono fragilità e lotte alle aspettative altrui, dispiaceri per affetti sbiaditi, difficoltà nel lasciarli andare e domande non requisitorie ma provocatorie. Sulla carta, la maggior parte delle tracce di “All Mirrors” mettono in rilievo una versatilità che l’artista statunitense ha già abbondantemente dimostrato, con un’ottima combinazione tra ballate fortemente orchestrate, percussioni fragorose, muri sonori à la Phil Spector, shuffle appena accennati e quella vocalità meravigliosamente dosata e sfruttata con grande saggezza, adibita a quinto strumento.
Quello che stordisce durante la sfilata delle undici tracce che compongono il disco è ciò che accade nel mezzo, l’abilità di Angel Olsen nel ribaltare i preconcetti dell’ascoltatore, senza essere mai prevedibile. La preponderanza delle melodie rende del tutto inaspettate le cacofonie (Lark), le dissonanze (Spring) o le lacerazioni (New Love Cassette) celate dentro forme musicali apparentemente familiari e riconducibili a un stile cinematografico abbastanza classico. “All Mirrors” non è solo un album cinematico o solo orchestrale: il denominatore tra differenti linguaggi è determinato così bene che, in alcuni momenti, è possibile intravedere alcune tra le visioni che la stessa Olsen ha immaginato, nonostante possano sembrare del tutto fuori luogo. Così in Summer si ha la percezione di quel decadentismo neworkese messo in mostra da Patti Smith nei suoi scritti o in Spring si avverte in lontananza il guitar synth di Robert Fripp.
Con una semplicità disarmante, Chance chiude questa giostra dai contorni un po’ sbiaditi che, ancora una volta, consegna al pubblico l’immagine di una donna forte e capace di slanci creativi notevolissimi. Nella sua versatilità musicale e tematica, “All Mirrors” dimostra che Angel Olsen è un’artista audace che non ha paura di spingersi oltre i suoi confini, che siano sonori o emotivi. Negli specchi di “All Mirrors” ci siamo noi, umani, cangianti, vulnerabili con le nostre immagini riflesse l’una in quella dell’altro e c’è lei a ricordarci che niente, ma proprio niente, va come ce lo aspettiamo.
(2019, Jagjaguwar)
01 Lark
02 All Mirrors
03 Too Easy
04 New Love Cassette
05 Spring
06 What It Is
07 Impasse
08 Tonight
09 Summer
10 Endgame
11 Chance
IN BREVE: 4/5