Nonostante oltreoceano sia, da sempre, un’abitudine radicata, la necessità consapevole di abbinare l’arte a tematiche politico-sociali è una consuetudine abbastanza ostica da mettere in pratica. Più in particolare, i musicisti socialmente e politicamente orientati si ritrovano spesso a fare i conti con dinamiche molto intricate che vanno dalle critiche del pubblico, all’appropriazione indebita di tracce fino a un utilizzo non conforme alle reali intenzioni dell’artista. Portare avanti una prospettiva personale su temi scomodi è sempre stata una prerogativa della scrittura di Ani DiFranco, portavoce di una visione narrativa sociale e personale.
Nel 2005, durante un’intervista rilasciata per l’uscita di “Knuckle Down”, la cantautrice ragionava su quanto fosse complicato veicolare messaggi sociali senza incorrere in polemiche e di contro come fosse semplice scrivere di rapporti sentimentali: “È assurdo che sia quasi impossibile parlare di lotta al patriarcato o di altri temi ricorrenti nelle nostre vite esattamente come l’amore”. Se con “Binary” (2017) Ani DiFranco raccontava un bisogno di interconnessione collettiva attraverso venature funk, jazz, atmosfere cangianti e sincopate, con Revolutionary Love scava ancora più a fondo, prendendo le mosse da “See No Stranger”, il libro di Valarie Kaur, avvocato attivissimo nella tutela delle minoranze e della parità di genere.
Le undici tracce di “Revolutionary Love” sono state incise nell’arco di due giorni, all’interno degli studi del produttore Brad Cook, e riassumono tre concetti spesso percepiti separatamente ma di fatto inscindibili: l’accettazione di sé, la comprensione di ciò che succede a chi è al di fuori di noi e le conseguenze di entrambi sulla democrazia rappresentativa. In tre parole: stranieri non estranei. La title track riassume le intenzioni di Ani DiFranco per tutta la durata del disco, affrontando la rabbia e il dolore dei tempi attuali attraverso un mix di jazz, folk, gospel e rock alternativo. In successione, ogni traccia è un richiamo alle relazioni tossiche (Chloroform), un invito alla cittadinanza attiva (Do It Or Die), alla lotta contro il patriarcato, cui si unisce inconsapevolmente anche Michelle Obama (Contagious).
A metà, i cambi di registro di Station Identification segnano il confine tra una zona più jazzata e cadenzata e un territorio acustico in cui il tempo è appena accennato. Metropolis risuona con un folk leggermente oscuro che sembra richiamare Bon Iver, probabilmente un pizzico di eredità derivante dall’ultima collaborazione con l’artista canadese in “Binary”. Simultaneously cavalca due mondi rappresentati perfettamente dal cambio di atmosfere dal folk al jazz; il metronomo va via via a diminuire su Confluence per lasciare il passo agli archi di Crocus in un miscuglio globale di melodie robuste, sfumature r’nb, soul, jazz, chitarre acustiche e arrangiamenti orchestrali.
La voce di Ani DiFranco è impeccabile in tutto, così come il suo stile inconfondibile nel coniugare testi provocatori e melodie ricercate. Ani DiFranco ha pubblicato più di venti album in tutta la sua carriera ma “Revolutionary Love” dà voce a profonde frustrazioni, sociali e personali ed è di fatto il suo album più politico. Nell’atto di scegliere se stare a guardare o fare proseliti, ha fatto quello che le riesce meglio: ne ha scritto.
(2021, Righteous Babe)
01 Revolutionary Love
02 Bad Dream
03 Chloroform
04 Contagious
05 Do Or Die
06 Station Identification
07 Shrinking Violet
08 Metropolis
09 Simultaneously
10 Confluence
11 Crocus
IN BREVE: 3,5/5