Quando l’anno scorso mi sono imbattuto per la prima volta in Anna B Savage, ho pensato che fosse un’artista navigata, con all’attivo diversi lavori. Il padroneggiare in maniera così disinvolta quella voce, così personale, la gran capacità di spaziare su toni e registri vocali più disparati, senza l’ausilio di particolari sovrastrutture – la breve performance era un’intimista chitarra/voce sul canale Instagram della Blogothèque – mi sono apparse peculiarità che dovevano aver già trovato una strada discografica. Salvo poi scoprire che ad essere stato pubblicato era solo un EP senza nome.
EP che non è passato inosservato agli adddetti ai lavori, infatti, anche forte di alcuni endorsement di spessore – Father John Misty, Jenny Hval e non da ultimo Willam Doyle degli East India Youth, anche produttore di questo disco – la City Slang Records, etichetta accorta nel circuito indipendente, non ci ha pensato molto a metterla sotto contratto e a pubblicare il suo primo full lenght: A Common Turn.
Una svolta, dunque. Quale, però? Da una lettura complessiva – ma di certo non esaustiva – del suo lavoro, la svolta della Savage sembrerebbe essere stata quella di trovare la chiave di lettura giusta per trasfondere nei suoi brani pezzi di vita che hanno influenzato la gestazione di questo disco. Punto di partenza: le insicurezze relazionali che generano manifestazioni d’ansia, le inadeguatezze fisiche e sessuali. Da qui la necessità di una sterzata per mettere se stessa al centro del proprio universo. Strumenti di cui si è servita: la meditazione, il birdwatching, ma anche la masturbazione – il “Take care of myself (if you know what I mean)” in Chelsea Hotel #3 a questo allude – tutti accuratamente sviscerati nel disco.
La forma di questi brani segue la lezione del cantautorato classico – Nick Drake è tra le sue maggiori influenze – ma senza esserne una ripetizione pedissequa. Incursioni elettriche ed elettroniche sono la variazione sul tema, spesso accompagnate da un cambio di passo ritmico e del registro vocale. I feedbackdell’iniziale A Steady Warmth preparano il terreno alle pennellate di chitarra acustica di Corncrakes, brano inizialmente nudo poi rivestito, in corso d’opera, di cori ed effetti sonori. La presa d’atto delle proprie fragilità, da cui deriva la consapevolezza della necessità del cambiamento, è cantata in Dead Pursuit, brano che gira intorno ad un giro di chitarra crepuscolare, impreziosito da riverberi sonori che arricchiscono l’intelaiatura del pezzo.
BedStuy, invece, ha un’anima sghemba che richiama un po’ i Radiohead di “Hail To The Thief”, prima di sciogliersi in un rivolo di riverberi elettronici che accompagnano il pezzo fino alla sua conclusione dal carattere meno concitato. La ritmica sincopata di A Common Tern tradisce il suo cuore jazzy, mentre Chelsea Hotel #3 – titolo che trae ispirazione dal famoso pezzo di Leonard Cohen –è il brano in cui più risaltano le peculiarità canore della Savage: la progressione del cantato è devastante, alterna toni e timbriche dal registro opposto prima di esplodere in un sentito amplesso vocale. Il finale è affidato al folk elettrificato di One in cui il “Cause I want to be strong” chiude il cerchio, sancendo la riuscita del processo di consapevolezza di sé dell’artista britannica.
“A Common Turn” è un percorso sonoro e testuale intenso e viscerale. È un esordio senza fronzoli o artifici retorici: la Savage ci racconta una storia, la sua, quella dell’ultimo lustro. Fare le pulci su eventuali imprecisioni o monotonie è ingiusto: è un lavoro che gira perfetto nelle sue imperfezioni, che trasuda completezza ed esaustività. Una svolta, non comune, forse.
(2021, City Slang)
01 A Steady Warmth
02 Corncrakes
03 Dead Pursuits
04 BedStuy
05 Baby Grand
06 Two
07 A Common Tern
08 Chelsea Hotel #3
09 Hotel
10 One
IN BREVE: 4/5