Gli Arcade Fire, loro, non hanno bisogno di convenevoli. Perché loro – loro – hanno fatto irruzione nel nuovo millennio in modo così dirompentemente spettacolare che quei passi soltanto – loro – basterebbero una carriera intera. Eppure loro – sempre loro – hanno tentato di alimentare un’identità mutante che non si sedesse sugli allori di una formula subito vincente, reinventandosi come si reinventano i grandi artisti, irrequieti per definizione. E noi ne abbiamo, comunque, goduto. Sempre noi, adesso, riabbracciamo con un certo entusiasmo almeno parte di quella formula, che noi – indubbiamente almeno, noi – abbiamo accarezzato negli anni come una foto felice, incorniciata e un po’, tristemente, polverosa. Noi, appunto, WE – che non escludeloro, comunque, la band – tutti protagonisti di questa nuova narrazione sonora che s’ispira al futuro che fu di Evgenij Zamjatin per disegnare, lucidamente, il presente.
Che l’asticella fosse rientrata sulle altezze degli esordi ce l’avevano anticipato le splendide due metà di The Lightning – brani d’impronta talmente riconoscibile da suscitare, unanimemente, reazioni di giubilo e tripudio. Come non innamorarsi di quell’intro à la “Love Will Tear Us Apart” e come non fare un gioioso, scatenato salto nei ricordi nella seconda, adrenalinica metà? Sembrava proprio, finalmente, che Win Butler, Régine Chassagne e compagnia si fossero ridiretti poeticamente verso casa, chiudendo un cerchio reso profetico dal titolo stesso dell’opera. A condire queste sensazioni, peraltro, ci si era messa pure Unconditional I (Lookout Kid), con le sue atmosfere vagamente haitiane (s’intenda non il paese ma la canzone), complice dunque di un hype oramai apparentemente molto ben riposto. Perché quindi, adesso, dire: apparentemente?
Perché se è vero che la sesta fatica sulla lunga distanza di uno dei gruppi più amati delle ultime due decadi non tradisce, in parte, le aspettative – è pure vero che in parte, purtroppo, le delude almeno un tantino. Non si tratta di cattiva scrittura ma semmai, alle volte, di mancata incisività. Come nel caso del centralissimo blocco End Of Empire che, al netto di un testo finissimamente architettato (”And the dreams in your head / The algorithm prescribed / Do you feel alright? / Your heroes are selling you underwear / And little white pills for your despair”) si assopisce musicalmente su una sorta di grosso rimpasto di grandi classici come “Imagine”, “One Love” o “Creep”. È corretto ribadirlo: non siamo dinanzi, sia chiaro, a composizioni sbilenche o spiacevoli – ma date le premesse e l’amore riposto, certamente, ci si poteva attendere qualche esplosione in più, qualche cavalcata più eccitante o una chiosa più memorabile per accompagnare gli ultimi versi della title track: ”When evertything ends, can we do it again?”.
Come sottolineato in apertura, gli Arcade Fire non necessitano convenevoli né mai li necessiteranno. Sarebbe da stupidi negare quanto di bello ci sia in questo disco. Eppure è proprio l’affetto a parlare quando si espongono i difetti, i crepacci, le ferite. C’è poesia in tutto questo come ce ne sarebbe stata in un album incontestabile. E forse è giusto così. È giusto che “WE”, con questo titolo, sia un episodio imperfetto con alcuni momenti sublimi. Come le nostre vite. Come le loro. Come tutte.
(2022, Columbia)
01 Age Of Anxiety I
02 Age Of Anxiety II (Rabbit Hole)
03 Prelude
04 End Of The Empire I-III
05 End Of The Empire IV (Sagittarius A*)
06 The Lightning I
07 The Lightning II
08 Unconditional I (Lookout Kid)
09 Unconditional II (Race And Religion) (feat. Peter Gabriel)
10 WE
IN BREVE: 3,5/5