Non è forse un caso se, proprio su queste pagine, del precedente “Afterglow” del 2017 salvavamo soprattutto i momenti in cui Ásgeir Trausti Einarsson rimetteva mano all’indie folk degli esordi, dimenticandosi almeno per un po’ di Justin Vernon, di James Blake e della corsa a un mondo fatto di vocoder e vene sintetiche che se non sei un gigante – come quei due – rischia d’inghiottirti. E che quella nostra valutazione non fosse avventata viene confermato adesso dalla bontà di larga parte di Bury The Moon, che prova a riportare Ásgeir indietro, molto indietro nel tempo.
Certo, la circostanza che il disco sia stato composto in solitaria, in campagna, con una chitarra acustica e poco altro, sulla scia della fine di una lunga relazione, non aiuta ad allontanare l’idea che Bon Iver sia sempre lì fuori dalla porta, pronto a entrare da un momento all’altro per dare qualche consiglio. Ma quella di Ásgeir è l’Islanda e non il Wisconsin, fuori non c’era la neve ma un flebile sole e immaginiamo – o quantomeno speriamo per entrambi – che la lei in questione non sia la Emma cui Vernon ha rivolto il suo straordinario esordio “For Emma, Forever Ago” (2008).
L’isolamento, però, a qualsiasi latitudine è amplificatore di sensazioni e sentimenti, li scarnifica e li riduce all’osso, proprio come fatto da Ásgeir col suo trasporli in musica e nelle undici tracce di “Bury The Moon”. O meglio, nella prima parte di “Bury The Moon”. Sì, perché fino a Overlay ci troviamo al cospetto di un lavoro intimo e rurale nel senso più semplice del termine, pochi elementi che rendono magnifici gli arpeggi dell’iniziale Pictures e coinvolgente l’incedere mumfordiano di Youth.
Poi, da Rattled Snow in giù le folate di folktronica fin qui solo accennate si reimpossessano prepotentemente del disco: tutto fatto bene, il neo soul di scuola Blake – ancora, sì – di Turn Gold To Sand si fa apprezzare particolarmente, ma non scatta mai la scintilla tra tracklist e ascoltatore, perché Ásgeir sembra sempre rifletterci su un po’ troppo, sembra quasi voler compiacere e soddisfare piuttosto che dimostrarsi genuinamente intento a raccontarci quello che gli passa per la testa.
Insomma, a ogni uscita Ásgeir è sempre una conferma, tanto nel bene quanto nel male, lasciando intravedere spiragli di personalità ma mai così larghi da riuscire a minimizzare confronti ingombranti che, purtroppo per lui, per il momento lo vedono puntualmente sconfitto. E poi, diciamola tutta: la storia dei dischi in doppia lingua (anche qui esiste la versione in islandese intitolata “Sátt”, con John Grant a coadiuvarlo nelle traduzioni in inglese) sta diventando per quanto lo riguarda un tantino ridondante, scegliere una via, anche alternativamente, potrebbe aiutarlo.
(2020, One Little Indian)
01 Pictures
02 Youth
03 Breathe
04 Eventide
05 Lazy Giants
06 Overlay
07 Rattled Snow
08 Turn Gold To Sand
09 Living Water
10 Until Daybreak
11 Bury The Moon
IN BREVE: 3/5