Brutte notizie. Scrivo questa recensione mentre, appena rientrato dopo due giorni di sano stacco dal variopinto mondo di internet e ingozzate di cibaglia trentina, leggo dell’incidente che il 15 Agosto ha coinvolto i Baroness nei pressi di Bath durante il tour di supporto al nuovo album. Pare che John Baizley, cantante e chitarrista, si sia fratturato braccio e gamba sinistri, il batterista Allen Blickle e il bassista Matt Maggioni con alcune vertebre fratturate. Ci sarà quindi un lungo stop prima che i quattro tornino insieme a suonare, sempre che il quadro clinico migliori. Le date del tour, ovviamente, sono state cancellate in blocco. Mi preme augurare un pronto ritorno alla band di Savannah, sfortunatissima in un momento in cui pubblico e critica le stavano rivolgendo maggiori attenzioni. Senza questo pessimo evento, la recensione sarebbe stata così:
Cosa passi per la testa dei Baroness non mi è dato saperlo. E’ un dato di fatto però che, prima di cadere nelle grinfie di una major che possa prenderli per le palle, sbatterli al muro e costringerli a ripudiare il catarro e la grinta degli esordi, ‘sti qua che mi combinano? Risposta esatta: ripudiano il catarro e la grinta e si danno alle morbidezze di un rock pacato e riflessivo. I giovani crescono e non hanno più voglia di farsi additare come dei ragazzacci con le mutande sporche e le t-shirt rancide degli Iron Maiden, adepti del Sacro Verbo dei Mastodon del monumentale “Leviathan” tutti roccherrolle bastardo & zozzo. Legittimo, per carità, ma concedetemi che lo sia anche il mio disappunto. Col “Blue Record” del 2009 i Baroness avevano dato prova di poter far proprio il linguaggio dei Mastodon, infatti, declinandolo secondo una grammatica più che personale. Oggi, invece, John Baizley e soci ricompaiono con Yellow & Green, addirittura 18 brani divisi in equa misura tra due ciddì, una collezione di canzoni che contrapporrà i fan della prima ora ai novelli ascoltatori. Procediamo con ordine. Il primo dischetto mostra la roba migliore. L’inizio getta un po’ di fumo negli occhi: Take My Bones Away prova ad agganciarsi al recente passato con un riffazzo di quelli massicci, solo che Baizley fa capire subito che qui non si ringhia più. Tempi quadrati, sviluppi semplici, anche l’anima prog è sparita in favore di canzoni dalla fisionomia ben delineata: è il caso di March To The Sea dal refrain anthemico, le power-ballad Eula (il meglio dell’intera opera, ed è tutto dire) e Back Where I Belong. E’ pressoché tutto qui il primo capitolo, niente che strabili, canzoni che filano senza lasciare impronte. E’ la roba migliore, ve l’ho detto, ma se avete già qualche piccolo rigurgito, vi sconsiglio allora di passare al secondo tomo. Perché lì c’è il peggio che i Baroness abbiano mai concepito. Tolta l’interessantina Board Up The House, che potrebbe ricordare i Soundgarden, rimane un ciuffetto di idee mediocri e sviluppate peggio che hanno asilo nel tris Foolsong–Collapse–Psalms Alive: la prima è una languida lagna melanconico-fracassapalle, la seconda uno sgorbietto che guarda a David Crosby ma senza neanche sfiorargli l’alluce, la terza una fetecchia quasi-electro-pop che sembra più uno scherzo. Ci vuole coraggio, mi dico mentre mi gratto la testa, a cincischiare co ‘ste cose qui. Si ri-pigiano i distorsori solo all’inizio di The Line Between (con “Stockholm Syndrome” dei Muse nei paraggi), ma è tutto così distante dai Baroness che conoscevo, quelli di “Jake Leg” e “Isak”, che se mettessi su una qualsiasi canzone dei Saliva (non so se ricordate) scoprirei a malincuore che le distanze con certo rockettuccio si sono parecchio accorciate. Non voglio condannare i Baroness a una morte artistica che potrebbe apparire prossima, ma dopo averli visti dal vivo a Firenze a fine Luglio la differenza qualitativa tra vecchio e nuovo materiale è quasi abissale. Insomma, Baizley e soci non mi fregano mica con le cromature vintage delle chitarre, coi tremoli anni Settanta e la ricerca spasmodica di un ritornello che si imprima in testa, operazione che decreterei al momento fallita miseramente. Non nascondo il rammarico per una prova sì interlocutoria, ma altrettanto pretenziosa e non riuscita.
(2012, Relapse)
– CD 1 –
01 Yellow Theme
02 Take My Bones Away
03 March To The Sea
04 Little Things
05 Twinkler
06 Cocainium
07 Back Where I Belong
08 Sea Lungs
09 Eula
– CD 2 –
01 Green Theme
02 Board Up The House
03 Mnts (The Crown And Anchor)
04 Foolsong
05 Collapse
06 Psalms Alive
07 Stretchmarker
08 The Line Between
09 If I Forget Thee, Lowcountry
A cura di Marco Giarratana