Amore e violenza sono, oltre che fil rouge e titolo del settimo album dei Baustelle, anche le reazioni che accompagnano da sempre, pressoché, la carriera della band toscana. Inaspritesi col tempo, queste fazioni di ascoltatori, colleghi e critici non fanno che ribadire, al più, la fondamentale presenza dell’ormai trio nel panorama tricolore: da diciassette anni.
Insieme a pochi altri, Bianconi e soci hanno ridefinito il pop nella sua transizione indie italiana, riuscendo forse più di tutti ad incidere, restare non sulla cresta dell’onda ma diventare, in qualche modo, l’onda stessa. Qualcosa da riconoscere oltre ogni ragionevole dubbio, a scanso di equivoci e blateramenti cosmologici. E a scanso di equivoci e blateramenti cosmologici, questa settima creatura dei Nostri è un gioiellino che ben realizza una sintesi delle puntate precedenti, riuscendo forse a mettere d’accordo – quantomeno – i fan di vecchia data e quelli nuovi.
Per quasi una buona prima metà dell’opera, i Baustelle non sfornano che altri classici da aggiungere al canzoniere, a cominciare da Il vangelo di Giovanni. Con l’istantanea Amanda Lear e la pregevolissima Betty (tra i pezzi migliori della loro produzione, über alles) si traccia la linea – familiarissima – di scrittura: un ritorno/non-ritorno all’adolescenza, all’amore, alla disillusione un po’ naïf e compiaciuta della giovinezza.
Territori già abilmente conquistati nelle spedizioni passate, è vero, ma qui magistralmente rinvigoriti con la “battiatesca” La musica sinfonica o con la seconda gemma del disco in ordine d’importanza: La vita, sorta di contraltare contemporaneo all’inno “Non è per sempre” degli Afterhours. A parte la rivedibile ma veniale Basso e batteria, l’economia de L’amore e la violenza è un sistema tendente a massimizzare le innegabili capacità melodiche del gruppo, con meccaniche già rodate ma ancora perfettamente funzionanti. La voce di Rachele Bastreghi è una bellissima e puntualissima sposa in bianco, le trame di Claudio Brasini definiscono la natura difficilmente elementare del lotto.
Francesco Bianconi, nelle sue note – verrebbe da dire – di regia definisce l’album “oscenamente pop”, in modo antitetico più che azzeccato. Alla musica italiana si perdonano (e anzi vengono glorificate) odiose, inutili derive parasarcastiche e filonichiliste da amatoriali circensi della canzone. Vengono perdonate modeste abilità compositive, ridicole competenze liriche in nome della salvaguardia di una specie che non è mai esistita. Invece la citazione diventa necessariamente boria, la leggerezza tipicamente insostenibile, la mistione una razza bastarda. L’oscenità del pop fa scopa con l’impossibile condivisione dell’innamoramento. Ma i Baustelle fanno scopa, molto più semplicemente, con le cose buone da ascoltare in giro. Fatevene una ragione.
(2017, Warner)
01 Love
02 Il vangelo di Giovanni
03 Amanda Lear
04 Betty
05 Eurofestival
06 Basso e batteria
07 La musica sinfonica
08 Lepidoptera
09 La vita
10 Continental Stomp
11 L’era dell’acquario
12 Ragazzina
IN BREVE: 3,5/5