Che se ne dica, gli algoritmi in musica non funzionano sempre. Non sempre quello che la formula matematica offre si incastra perfettamente con i gusti musicali dell’ascoltatore. Ascoltare A e B non sempre significa che AB ci piacerà. Certo, questo potrebbe aprire una riflessione infinita – importante ma comunque sterile – sui modi odierni di fruizione della musica, sulla frantumazione del concetto di disco in favore dell’effetto parcellizzazione delle playlist, ma non è questo il luogo e l’occasione per farlo. Tutto questo gorgoglio di parole per dire che, anche nel caso delle band, l’algebrica somma di musicisti appartenenti a formazioni navigate e importanti non dà sempre l’esito sperato. Parafrasando i Radiohead: 2 + 2 può anche dare 5 come risultato.
Ma non è questo il caso. I Beachy Head nascono dalla testa di Christian Savill, membro storico degli Slowdive e artefice di quel suono onirico e rarefatto che è stato il fondamento dell’archetipo sonoro di shoegaze più sognante e catchy. Il disco, omonimo, nasce un po’ in sordina – a distanza, data la pandemia e senza che ci fosse un obiettivo preciso – ma si sviluppa in maniera molto naturale: Savill, dopo la fine dell’ultimo tour con gli Slowdive, comincia a scrivere in maniera compulsiva e sottopone il frutto della sua febbrile ispirazione ai colleghi e amici Ryan Graveface (Dreamend e The Casket Girls ma soprattutto fondatore della Graveface Records) e Steve Clarke (marito di Rachel Goswell, cantante degli Slowdive, con cui condivide il duo The Soft Cavalry). Da lì il disco comincia ad assumere una forma: Clarke e Graveface da Savannah (Georgia) cominciano a lavorare sugli arrangiamenti iniziali, coinvolgendo anche Matt Duckworth dei Flaming Lips per le linee di batteria e la stessa Rachel Goswell per i cori e la voce solista in alcuni pezzi (All Gone).
Il risultato è puro immaginario dream gaze diluito in ventotto minuti e impreziosito da inserti psych che danno maggiore profondità al suono. La placida circolarità del riff di Warning Bell spiega subito le intenzioni: non smuoversi di un centimetro dalle proprie radici. Una scelta che ripaga su tutta la linea: l’ascoltatore, che sia esso fan o neofita del genere, è catapultato in una landa sonora confortevole e accogliente. Se Michaelprosegue sulla linea estetica dreamy, Distraction preferisce virare sul versante psych generato dalla polvere di stelle del synth modulare in sottofondo. All Gone vede l’incursione della voce eterea della Goswell: melodie melanconiche si aggrovigliano in un brulicare di echi di Slowdive, Cocteau Twins e Low – nella versione più slow core – così vividi e refrattari all’uscita di scena.
Looking For Exits è il brano più muscolare del disco: l’architrave classica indie rock, con i feedback di chitarra sullo sfondo, supporta un leitmotiv attraente, prima del diradamento sonoro finale. La fine, invece, è affidata al brano più iconico del disco, nonché al primo singolo uscito: Destroy Us. Il titolo parla di distruzione ma intesa come conseguenza di scelte autosabotative, che nel quotidiano accadono di sovente. Un pezzo ontologicamente innodico che mira a imbrigliare l’ascoltatore nelle sue trame melodiche con il suo ritornello catchy e corale.
L’opera prima dei Beachy Head è un lavoro di maniera, compatto nei suoni e nella proposta e ben ancorato all’archetipo sonoro di riferimento. Insomma, il classico caso in cui unire dà un valore aggiunto e il risultato sperato: 2 + 2 = 4. L’algoritmo avrebbe avuto ragione!
(2021, Graveface)
01 Warning Bell
02 Michael
03 Distraction
04 All Gone
05 Looking For Exits
06 October
07 Hiddensee
08 Destroy Us
IN BREVE: 3,5/5