Nell’agosto del 2009, dopo anni di onorata e gloriosa carriera, gli Oasis (che piaccia o no, una delle più importanti rock band degli ultimi 20 anni) scomparivano dopo l’ennesimo furente litigio tra i fratelli Gallagher. Chi aveva assistito al tour dell’ultimo album “Dig Out Your Soul” aveva potuto ammirare una band ineccepibile dal punto di vista musicale (e nuovamente apprezzata dalla critica) ma ormai senza un’anima. Per questo motivo, una svolta con carriere separate – nonostante il rischio di indebolire il prodotto finale – avrebbe avuto il merito di ridare linfa alla voglia di far musica dei fratelli Gallagher. Così è stato, almeno a metà: se Noel Gallagher è dedito ormai ad una sedentaria vita da padre di famiglia e tifoso del Manchester City, quel che restava degli Oasis (Liam Gallagher, Andy Bell, Gem Archer e Chris Sharrock) si è messo subito al lavoro. Nuova band (Beady Eye) ed album e tour pronti per i primi mesi del 2011. Questa corposa introduzione era obbligatoria per rapportarsi al meglio con le aspettative (non altissime, ma comunque discrete) per il progetto Beady Eye. Dopo avere ascoltato più volte il disco d’esordio, Different Gear, Still Speeding, devo dire che l’impressione è davvero negativa. Al di là del fatto che fosse Noel Gallagher a comporre la stragrande maggioranza dei brani degli Oasis, sarebbe stato lecito aspettarsi molto di più da questo album, visto e considerato che in passato Liam Gallagher, Bell ed Archer avevano dimostrato di saper comporre ottime canzoni (“Born On A Different Cloud” e “Keep The Dream Alive” su tutte). Qui invece siamo di fronte ad un lavoro che nulla aggiunge ma molto toglie rispetto ad un album degli Oasis. Tolto di mezzo l’odiato fratello Noel (che ormai da tempo aveva sostituito Neil Young a John Lennon come principale modello musicale) Mr. Pretty Green, al secolo Liam Gallagher, non ha più vincoli e freni, e può dilagare in tutta la sua Beatles-mania, con esiti purtroppo nefasti. E dire che l’iniziale Four Letter Word aveva fatto sperare bene: una canzone piacevole, energica e non banale, che lascia immaginare un rispetto degli standard minimi qualitativi oasisiani. Nulla di più sbagliato, il disco purtroppo scivola via senza alcun sussulto, con brani che già dal titolo (The Beat Goes On, e – udite udite – Beatles And Stones) ci fanno capire come la vena creativa di Gallagher Jr e soci sia giunta alla canna del gas. Il peggio si raggiunge indubbiamente con Bring The Light, brano peggiore dell’album che è stato addirittura scelto come primo singolo promozionale per fare conoscere la band (ciò la dice lunga sulla lungimiranza del progetto): una melodia insulsa, basata su arrangiamenti scontati e ridicoli coretti anni ’50 che, per non farsi mancare nulla, si conclude con una interminabile e stucchevole serie di “baby c’mon”. Cosa salvare dunque, a parte la già citata opening track? La produzione del disco è ottima, e la voce di Liam Gallagher sembra essere tornata ai fasti di un tempo. Inoltre il singolo The Roller è sicuramente una canzone piacevole, peccato che sia uno sfacciato plagio di “Instant Karma”, capolavoro di Lennon. Troppo poco. Si può giustamente obiettare come sia sbagliato paragonare gli Oasis con i Beady Eye, sarebbe però un discorso valido se i quattro ex-Oasis avessero osato un minimo in termini di cambiamento musicale, ma visto che non hanno spostato il target di una virgola, i paragoni sono inevitabili (ed impietosi). Il punto è che siamo di fronte ad una serie di brani che potrebbero tutti comparire tranquillamente in un album degli Oasis, ma semplicemente come riempitivo: ciò che ha salvato la band dei fratelli Gallagher è stata – nonostante abbiano da sempre peccato di originalità – la capacità di inserire sempre un paio di grandi canzoni anche nei lavori meno riusciti (per non parlare dei primi due album, autentici oggetti di culto per gli amanti del genere). Qui invece tutto è strasentito, tutto ovvio, mancano tra l’altro ballate vere e proprie, le chitarre elettriche sono dosate col contagocce (dunque il piattume sonoro è assoluto) e stupisce in negativo che ad innalzare l’asticella della qualità non abbia contribuito in alcun modo Andy Bell, che deve avere dimenticato di essere stato leader di una delle più importanti band del movimento shoegaze (Ride), nonchè compositore di ottimo britpop con gli Hurricane #1. In conclusione, se gli Oasis avevano un senso negli anni ‘90, non possiamo dire lo stesso dei Beady Eye nell’anno del rock 2011. Chi volesse approfondire il genere può benissimo scoprire o riascoltare album come “Definitely Maybe”, “(What’s The Story?) Morning Glory” e “The Masterplan”, lontani (fortunatamente) anni luce da questo scempio. Forse Liam Gallagher avrebbe dovuto spendere più energie nella realizzazione dell’album, anzichè dedicarsi alla creazione di vestiti di dubbia qualità, ma ormai una bella canzone vale meno di un parka.
(2011, Dangerbird)
01 Four Letter Word
02 Millionaire
03 The Roller
04 Beatles And Stones
05 Wind Up Dream
06 Bring The Light
07 For Anyone
08 Kill For A Dream
09 Standing On The Edge Of The Noise
10 Wigwam
11 Three Ring Circus
12 The Beat Goes On
13 The Morning Son
A cura di Karol Firrincieli