Il 13 Dicembre 2018 con una foto postata su Instagram e raffigurante una brochure, un numero di telefono con un prefisso del Kansas e l’annuncio di un programma venturo, il Better Oblivion Community Center ha fatto la sua apparizione in sordina. Lungi dall’essere considerato un progetto musicale e professandosi inizialmente come un centro deputato al benessere del corpo e dell’anima – “Assisted self-care, chosen family therapy, dryice meditation, free human empathy screening, sacred crystal implanting and removal, pineal gland expression and more” sarebbero stati i servizi offerti dalla fittizia comunità, come appare dalle informazioni reperite in rete – è stato necessario attendere un mese prima che ne venisse svelata la reale natura e che soprattutto ne venissero rivelati i ghostwriter. Conor Mullen Oberst, classe 1980, e Phoebe Bridgers, classe 1994, apparentemente sembrerebbero appartenenti a due generazioni cantautoriali distanti, principalmente per il dato anagrafico. Il sembrare è d’uopo, però, in quanto la distanza è colmata dallo stesso modo di concepire l’approccio alla musica, ossia attento a catturare le gradazioni cromatiche dell’animo umano ma con uno sguardo lucido sulla realtà.
Ed è così che il loro percorso professionale si incrocia, inizialmente in maniera sommessa con una partecipazione di Oberst a un brano del disco d’esordio della Bridgers – “Would You Rather” presente in “Stranger In The Alps” del 2017 – per poi sfociare in questo inatteso disco, ordito in gran segreto in California. Scritto, arrangiato e autoprodotto con l’ausilio di John Congleton in fase di mixaggio tra la primavera del 2017 e l’inverno del 2018, Better Oblivion Community Center è il piacevole incontro di due sensibilità artistiche dal background indie folk speculare, pregno di sfumature sonore che ben si prestano a un attento vaglio dell’ascoltatore.
Ed è così per il pezzo introduttivo Didn’t Know What I Was in Forche parte con scarni accordi di chitarra acustica per poi aggiungere riverberi elettrici ed echi di armoniche, rendendo più variegata l’intelaiatura sonora del brano. In Sleepwalkin’ risaltano gli echi powerpop del ritornello, merito anche dell’apporto di Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs, chiamato da Oberst a suonare le chitarre sul disco. Nel folk rock di Dylan Thomas le liriche del leader dei Bright Eyes rendono il giusto tributo alla verve dissacrante del poeta gallese, la cui presenza nel brano aleggia soltanto, essendone riservata la menzione al titolo ed a poco altro.
Chesapeake è un highlight del disco che merita un cenno particolare: è un brano dalla struttura semplice, da cui scompare ogni sovrastruttura strumentale. La chitarra acustica genera un’armonia struggente, delicata, su cui le due voci si adagiano l’una sull’altra in una maniera tale da suscitare nell’ascoltatore l’impressione che si tratti di un unico spettro vocale. Planando velocemente sugli altri due pezzi centrali dell’album, My City e Forest Lawn, dall’iconico songwriting oberstiano, si arriva alla cupa Big Black Heart in cui a far da padrone sono le tinte emo rock di cui si veste il brano, soprattutto nel ritornello, che ricordano diversi momenti di “Strangers In The Alps” della Bridgers.
Il sodalizio artistico funziona, si dimostra ispirato e ben bilancia zone franche di cantautorato puro a momenti leggermente più sperimentali, sebbene questi, a tratti, palesino una minore messa a fuoco rispetto al resto (Exception To The Rule). In attesa di conoscere le prospettive future di questo convincente duo, ci godiamo questo presente piacevolmente inaspettato.
(2019, Dead Oceans)
01 Didn’t Know What I Was In For
02 Sleepwalkin’
03 Dylan Thomas
04 Service Road
05 Exception To The Rule
06 Chesapeake
07 My City
08 Forest Lawn
09 Big Black Heart
10 Dominos
IN BREVE: 3,5/5