Il progetto si chiama Big Red Machine, è stato prodotto in collaborazione con Brad Cook, mixato da Jonathan Low e tutto il lavoro si è svolto presso lo studio Long Pond di Dressner (peraltro anche co-titolare con Alec Hanley Bemis della Brassland Records) a New York, anche se per la verità la genesi autentica di questo lavoro affonda le radici nel tempo. Andiamo indietro infatti fino al lontano 2008, praticamente dieci anni fa, quando Aaron Dressner inviò a Justin Vernon dei campionamenti che poi divennero la canzone “Big Red Machine” pubblicata all’interno della compilation “Dark Was The Night”, uscita su 4AD nel Febbraio 2009, realizzata dalla organizzazione benefica Red Hot Organization e dedicata alla raccolta fondi per la prevenzione dell’AIDS.
Negli anni il legame tra i due artisti si è rafforzato e lo stesso album esce peraltro come contorno al lancio della piattaforma PEOPLE, connessa all’omonimo festival musicale e dedicata a streaming e diffusione di materiale musicale tanto del duo quanto di altri artisti e associati come Sufjan Stevens, Lisa Hannigan e Nico Muhly. Insomma, c’è parecchia carne che cuoce sul piano promozionale e per ciò che riguarda tutta una serie di connessioni e progettualità ad ampio raggio (tutte da verificare nel tempo come riuscita) che vanno però al di là dei contenuti dell’album, che invece sono veramente di basso livello.
Big Red Machine, va detto, non è un disco particolarmente ambizioso e non punta in alto: è costruito sostanzialmente su basi minimal e quella dubstep che oramai è costante e ponte tra due mondi sempre più vicini che sono quello mainstream e quello indie. La conseguenza che il risultato sia qualcosa che non abbia un’autentica sostanza è quasi inevitabile. Sembra di ascoltare i Coldplay che provano a fare “The Eraser” di Thom Yorke (Lyla), così come possiamo pensare ai soliti e scontati riferimenti a James Blake (Forest Green).
Ma c’è di peggio: Air Stryp manca praticamente di ogni connessione tra la base musicale e la parte cantata; OMDB potrebbe essere una sessione dubstep interessante, ma la voce di Vernon, filtrata pure attraverso l’uso di vocoder, eco e riverberi è veramente irritante e finisce per rovinare tutto; si tocca infine davvero il fondo con due pezzi come Gratitude e I Won’t Run From It, che sono una vera e propria farsa, un tentativo non riuscito di recuperare sonorità xhosa oppure tswana che farebbe rabbrividire il buon vecchio Paul Simon.
Si salvano due pezzi standard come Hymnostic e People Lullaby, oltre al suono elettrico di Melt, sicuramente più vicino allo stile tipico dei The National, il che fa domandare se magari orientarsi verso quella direzione non avrebbe potuto portare a qualcosa di buono in un disco che non fa altro che continuare a demolire a picconate quell’attenzione che Justin Vernon si era guadagnato con “For Emma, Forever Ago” (2008). Ma il cantautore del Wisconsin è sempre più una parodia di se stesso e anche questa collaborazione con un musicista pop ma comunque assennato come Dressner è l’ennesima occasione mancata.
(2018, Jagjaguwar)
01 Deep Green
02 Gratitude
03 Lyla
04 Air Stryp
05 Hymnostic
06 Forest Green
07 OMBD
08 People Lullaby
09 I Won’t Run From It
10 Melt
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