Andiamo dritti al punto: se dovessi dire che cosa sia oggi la musica “americana”, direi di ascoltare Bill Callahan e che Gold Record racconta benissimo quale sia la definizione del genere. La scrittura di Bill Callahan è letteratura, questo disco è la narrazione degli Stati Uniti d’America come il cinema (se qui si omaggia Ry Cooder, cui viene dedicata una intera canzone, non è un caso) di Alexander Payne, “Three Billboards Outside Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh, le sceneggiature di Taylor Sheridan, ha le facce di John Carroll Lynch e Harry Dean Stanton.
C’è una grande differenza con “Shepherd In A Sheepskin Vest Side” (2019), un disco ambizioso e con il quale Bill Callahan concludeva un decennio per lui ricco di avvenimenti che hanno segnato la sua vita personale (il matrimonio, la paternità) e quella professionale, con due album come “Apocalypse” (2011) e “Dream River” (2013) che sono e restano due capolavori assoluti. Callahan è Omero o Virgilio e allo stesso tempo è Steinbeck, era un disco nato per essere importante, ma che adesso resta lì nello scaffale, ci ritorneremo su un giorno per capire.
Qui invece è tutto diverso. Il disco è stato registrato molto rapidamente con delle session dal vivo con gli storici collaboratori Matt Kinsey e Jamie Zurverza, è stato diffuso “a pezzi” nei mesi che ne hanno preceduto l’uscita. Contiene dieci canzoni tra cui una rivisitazione di Let’s Move To The Country che faceva già parte di “Knock Knock”, pubblicato nel 1999 con il moniker Smog e la produzione di Jim O’Rourke.
Non c’è nessuna epica. “Gold Record” racconta storie di persone fatte di persone (la bellissima Breakfast, As I Wander), sono ritratti di un’età dell’oro che non vuole appartenere al passato e che vuole che gli Stati Uniti d’America abbiano ancora qualcosa da raccontare. Sono ritratti, istantanee di una vita quotidiana che non è, non può e non vuole essere spettacolare, ma che semplicemente sono corredate da arrangiamenti mai sopra le righe (sempre notevole la tecnica chitarristica), sono semplicemente asciutti eppure allo stesso tempo sensibili e pitture ad acquerelli.
Lo stile di Bill Callahan è personale, ma eclettico. Mi viene in mente la parola “gentilezza”. Forse è una buona parola per definire un disco che non è di maniera, ma sicuramente improntato alle buone maniere e che richiama anche una certa capacità manuale che è contatto con la realtà. Canzone più bella: The Mackenzies.
(2020, Drag City)
01 Protest Song
02 Pigeons
03 Another Song
04 35
05 The Mackenzies
06 Let’s Move To The Country
07 Breakfast
08 Cowboy
09 Ry Cooder
10 As I Wander
IN BREVE: 3,5/5