Piove ma dove appari non è acqua né atmosfera, piove perché se non sei è solo la mancanza e può affogare (Eugenio Montale, Piove – da “Satura”). Sono poche le cose che so. Poche davvero. So ad esempio che gli esseri umani falliscono; che gli esseri umani finiscono. So che sono passato io, che passerò ancora. So che sono passati altri. So che i nomi tatuati sulla pelle scompaiono tra le pieghe del tempo. Si nascondono; quantomeno ci provano. So che “At the end of the day / Ain’t nobody else / Gonna walk / In your shoes / Quite the way / You do”. Perché le scarpe degli altri non si possono indossare. Si può fare al massimo come da bambini: giocare un po’ con quelle del papà, della mamma, del fratello maggiore. Ridere per un’ora o due, vestire una camicia già abbottonata come fosse una tunica, stappare il rossetto per credersi grandi. E risultare ridicoli, poi; sempre e solo ridicoli, alla lunga. «Avevo registrato in casa per tanti anni, e non mettevo piede in uno studio da trenta. Gli dissi scherzando: ‘Vedi Joshua, io non faccio dei veri album. Ne faccio solo di immaginari’. E lui rispose: ‘Beh, non pensi che sia arrivata l’ora di farne uno vero, Bill?’». Il Joshua del quale parla Bill Fay è Joshua Henry, trentaduenne produttore del Nevada al quale si deve l’immarcescibile magia di quest’opera. A questo ragazzo cresciuto indossando le scarpe del cantautore britannico, ascoltandone i dischi che appartenevano al padre James. A questo ragazzo che è stato in grado di coinvolgere nel progetto Ray Russell e Alan Rushtone, i vecchi compagni di viaggio che avevano inciso “Time Of The Last Persecution”, nell’ormai lontanissimo 1971. A questo ragazzo, che nell’Agosto 2012 ha reso possibile l’ormai insperato, catturando ancora una volta l’umanissima, geniale spiritualità d’un artista lungamente ed ingiustamente bistrattato. La grazia innata di Fay si manifesta dai primissimi rintocchi dell’opera: la catarsi di There Is A Valley, la mestizia degli archi suonati dal Vulcan String Quartet in Big Painter, l’elegantissima, nuda danza al pianoforte di The Never Ending Happening. Al pezzo più rock del lotto, This World – che vede anche la partecipazione di Jeff Tweedy – segue l’estremo conforto della bellissima The Healing Day prima e l’ambizioso caleidoscopio seventies di City Of Dreams poi. Non c’è flessione, non un minimo cedimento, nessuna opaca finestra spazio-temporale che possa lasciar filtrare odore di stantio. Dal gospel contemplativo di Be At Peace With Yourself all’autentico manifesto dell’intero progetto, la splendida Cosmic Concerto (Life Is People), si attraversano le viscere di un’attesa più che ben consumata con Empires, Thank You Lord e un’eccezionale lettura di Jesus, Etc. dei Wilco. “It’s time to leave and say goodbye / At least for now”, canta infine il maestro londinese, in solo, nel brano che sembra – più che chiudere il sipario s’una pièce specifica – porsi ad appendice d’una precisa weltanschauung germogliata lungo decenni, apparsa con gentilissimo impeto sulle labbra d’un indimenticabile comeback. Sono poche le cose che so. Poche davvero. So ad esempio che l’arte, qualunque cosa sia, mi permette di credere che qualcun altro, da qualche parte, in qualche modo abbia provato ciò che provo io. So che il mio giradischi è lì: pronto a salvarmi e ad essere salvato, da quando ho dodici anni; senza che io dica una parola. So che at the end of the day, minuscolo come sono, non sarò mai e poi mai Bill Fay. Non indosserò mai le sue scarpe. Ma so anche che posso, con ai piedi le mie, seguirlo un po’ lungo il suo tragitto. Fargli un po’ di compagnia. Perché forse hai ragione, Bill: la vita è la gente. La stessa che ti sottrae, la stessa che ti ripristina. La stessa che torna dopo quarantun anni con un album luccicante, mentre il cielo caliginoso di Sicilia rigurgita il grigio uccidendo i colori dell’estate. Piove. Eppure alcune, tra quelle gocce, custodiscono incredibilmente la gioia futura, giungono sulla mia pelle come note di pianoforte. So che non sono passato io; so che non passeranno gli altri. E c’è questo tizio inglese che canta. Che guarda in alto e dice: «non preoccuparti».
(2012, Dead Oceans)
01 There Is A Valley
02 Big Painter
03 The Never Ending Happening
04 This World
05 The Healing Day
06 City Of Dreams
07 Be At Peace With Yourself
08 Jesus, Etc.
09 Empires
10 Thank You Lord
11 Cosmic Concerto (Life Is People)
12 The Coast No Man Can Tell
A cura di Michele Leonardi