Vulnicura sarebbe dovuto uscire ufficialmente a Marzo, ma la circolazione di un leak illegale ha costretto Bjork e il suo entourage a limitare i danni rendendolo disponibile su iTunes già il 20 gennaio. Il nono disco dell’artista islandese sarà comunque presentato per il lancio del disco fisico come prestabilito al MoMA di New York in concomitanza con l’inaugurazione della mostra dedicata alla sua carriera.
Alla radice di “Vulnicura” ci sono il dolore e la sofferenza della Guðmundsdóttir prima e dopo la separazione dal marito che ha sconvolto gli equilibri familiari. Più che dettato da nuove curiosità stilistiche, è sorto dall’urgenza di espellere il malessere dell’abbandono e per l’occasione l’artista islandese riesuma le cupe e affascinanti atmosfere di “Vespertine” e le trasfigura grazie a un copioso uso di archi, adagiando il tutto su texture ritmiche minimali. I brani rimangono per lo più sospesi a mezz’aria, raramente sostenuti da sincopi elettroniche grazie al contributo del producer venezuelano Arca – classe 1990, già a lavoro con Kayne West e FKA Twigs, che è anche co-autore di due brani.
“Vulnicura” è un album lungo in cui 7 brani su 8 superano i 6 minuti, uno addirittura tocca i 10. Eppure il flusso narrativo non singhiozza mai, nonostante la struttura-canzone sia quasi del tutto assente. Il duo iniziale Stonemilker / Lionsong è l’unico a presentare una netta distinzione tra le stanze compositive, i “ritornelli” sono eleganti e si librano da terra con una leggiadria da brivido. E nella prima quell’emotional sospinto dagli archi evoca distintamente “Joga”.
Gli archi sono l’elemento principale su cui Bjork poggia le sue inconfondibili melodie e non è raro intercettare tra le maglie di “Vulnicura” numerosi riferimenti a compositori della classica contemporanea. Nell’oscura Mouth Mantra risuona l’anima tormentata di Jean Sibelius; in Family, con lo zampino di The Haxan Cloak nei beat, emergono i cluster di Penderecki e gli scenari atonali e ispidi di Messiaen (e se a qualcuno venisse in mente “All Is Full Of Love” nella lunga ed eterea coda non avrebbe un’errata intuizione). Lo spirito sperimentale non è messo da parte, in Notget la Bjork più istrionica e avanguardista risale la corrente ricongiungendosi alle complesse geometrie di Biophilia.
L’apice assoluto è però raggiunto dalla strepitosa Atom Dance che racchiude l’essenza dell’intero disco. Si schiude su un pizzicato di violino e cresce d’intensità fino all’ingresso di Antony Hegarty, che era già apparso in “The Dull Flame Of Desire” di “Volta”. Al suo interno ci sono gli intrecci tonali degli archi, la fluidità melodica delle voci, quel tocco sperimentale espresso nel break. E’ una canzone bellissima, una delle migliori della Guðmundsdóttir degli ultimi 10 anni.
Il punto in cui la forza di volontà dell’ascoltatore è messa a dura prova è invece Black Lake, una vera e propria sinfonia di dieci minuti in cui si distinguono diversi movimenti: l’incipit sospeso che progressivamente muta in un climax con cassa continua che, giunto sul punto d’esplodere, si spegne e prosegue la sua marcia in un claudicante stream of consciousness che si riaccende e spegne nuovamente, fino a estinguersi su una languida nenia di violino.
Sfuggente e a tratti maestoso, ma d’una tristezza sconfinata, “Vulnicura” mescola di nuovo le tessere dell’ineffabile mosaico-Bjork rimettendo in discussione quasi tutte le nostre certezze sul suo percorso evolutivo. Ancora una volta sorprende, ancora una volta affascina, ma forse era questa l’unica cosa certa.
(2015, One Little Indian)
01 Stonemilker
02 Lionsong
03 History Of Touches
04 Black Lake
05 Family
06 Notget
07 Atom Dance
08 Mouth Mantra
09 Quicksand
IN BREVE: 4/5