Mi sbilancio: forse nel Regno Unito una band così non si è mai vista. Va detto in verità che di gruppi così e così bravi non è che ce ne siano tanti in circolazione e che per una volta la definizione di “next big thing” non solo sembrerebbe essere giusta, ma di fatto già superata con la pubblicazione di questo spettacolare album uscito per la Rough Trade e prodotto da Dan Carey.
I Black Midi sono un quartetto londinese composto da Geordie Greep, Matt Kwasnieski-Kelvin, Cameron Pincton e Morgan Simpson e hanno cominciato ad avere una certa popolarità a partire dallo scorso Gennaio dopo la diffusione via KEXP del video di una loro performance in un ostello in Islanda: venti-trenta minuti che sono bastati a fare colpo e in cui venivano eseguiti alcuni dei pezzi che poi sono entrati a far parte del loro album di debutto, Schlagenheim.
Sarebbe limitante in questo caso nominare un riferimento universale come Mark E. Smith, oppure una attitudine hardcore come quella dei Black Flag, perché la verità è che qui andiamo ben oltre: il suono elettrico del gruppo ha una forma che è flessibile, anzi quasi aerodinamica, che richiama quella elettricità colta tipo Pere Ubu, una vicinanza peraltro accentuata anche dal suono nasale della voce e proprio dal modo di interpretare le liriche, quindi composizioni modulari tirate fuori dal math rock e tempi asincroni, sterzate improvvise e cristalleria in frantumi Sonic Youth, esplosioni fragorose primi Akron/Family, ipnotismi e ripetitività Public Image Limited.
Quest’album sembra raccogliere tutta una serie di esperienze che sono state seminali nel rock alternative tra la fine degli anni Ottanta e fino all’inizio del nuovo millennio. Ma in fondo parliamo di una storia più lunga e che ha più un marchio tipicamente US che britannico: i Red Krayola, l’approccio cerebrale di Captain Beefheart, la schizofrenia dei Devo e poi gli anni Ottanta con gruppi come i Minutemen/Firehose (vedi in particolare la sezione ritmica, ma pure il lato più istintivo delle composizioni), forme di cantautorato sperimentale à la Jackie-O Motherfucker e qualcosa della componente Zu oppure quello che oggi fanno i 75 Dollar Bill (che hanno appena pubblicato un nuovo album su Glitterbeat).
In definitiva: uno dei dischi dell’anno e un gruppo che sicuramente si candida a essere uno dei più rappresentativi dei prossimi anni nel panorama “alt”, ammesso che riescano a mantenere questo stesso approccio aperto e istintivo invece che cedere a più facili soluzioni che non porterebbero da nessuna parte se non a chiudere se stessi dentro un circuito chiuso.
(2019, Rough Trade)
01 953
02 Speedway
03 Reggae
04 Near DT, MI
05 Western
06 Of Schlagenheim
07 bmbmbm
08 Years Ago
09 Ducter
IN BREVE: 5/5