Quand’è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa per la prima volta? È plausibile ipotizzare che quella sensazione di umana libertà primitiva abbia aperto scenari prepotentemente nuovi nella testa di Stephen McBean, neopatentato a 48 anni. I canadesi Black Mountain si sono sempre mossi a cavallo tra lo psych rock e un umore quanto più autentico e corrispondente a tutto ciò che è seguito dagli anni ‘60 in poi, dal loro omonimo esordio del 2005 a “IV” del 2016, attingendo avidamente dalla classica tradizione zeppeliniana e indicando senza spocchia una via utile per non cadere in tentazioni parodiane a un bel po’ di band. Destroyer, quinto capitolo della band di Vancouver, si è presentato in scena mutilato dall’assenza della voce di Amber Webber e dei piatti di Joshua Wells (entrambi ormai impiegati full time del progetto Lighting Dust). Eppure il risultato è ben diverso da uno sterile verbale di invalidità. McBean e Schmidt, unici componenti originari della band, prendono le redini di drum machine, synth e mellotrone, mentre alla batteria si alternano Adam Bulgasem (Soft Kill), Kliph Scurlock (Flaming Lips) e Kid Millions (Oneida).
La nuova voce di Rachel Fannan (Sleepy Sun) e il missaggio di John Congleton (St. Vincent, Swans) completano questo viaggio reale e virtuale di ventidue tracce a cui ne sono sopravvissute otto, le prescelte per aggiungere un tassello di pregio nella discografia dei canadesi. Una monoposto Dodge Destroyer del 1985 si rivela la musa del disco: l’eccitazione primordiale dell’ascolto della musica in fase di guida e l’atmosfera che si crea durante un’azione così scontata per la maggior parte di noi, ha aperto nuovi scenari nella mente di McBean e nella discografia dei Black Mountain.
Un composto organico fatto di armonizzazioni robotizzate (Horns Arising), atmosfere minimaliste (Closer To The Edge), episodi prog (Boogie Lover) e distopici (Pretty Little Lazies) con fugaci influenze del prog ‘60 e ’70, ma non solo: FD’72, unica traccia eseguita esclusivamente dal duo McBean/Schimdt, sfodera un inaspettato riferimento alla “The Man Who Fell To Earth” bowieana, nei testi e nella resa.
In occasione dell’uscita del disco McBean ha dichiarato: “Abbiamo la libertà di fare ciò che vogliamo musicalmente, ed è anche uno dei motivi per cui ho continuato a farlo”. Detto, fatto.
(2019, Jagjaguvar)
01 Future Shade
02 Horns Arising
03 Closer To The Edge
04 High Rise
05 Pretty Little Lazies
06 Boogie Lover
07 Licensed To Drive
08 FD’72
IN BREVE: 3,5/5