Ed è così che Paolo Iocca e Marcella Riccardi hanno deciso di abbandonare i Franklin Delano. Di corsa, a bordo della loro auto, sfrecciando tra la polvere del deserto, fino a perderne l’immagine dallo specchietto retrovisore e lasciarli lì a schiattare sott’al sole. Un passaggio importante, una fine che – come dicono loro stessi nel vecchio sito dei Franklin – è inevitabile come in tutte le cose di questo mondo. Basta lacrime dunque, perché il duo bolognese non s’è fatto aspettare molto. Il nuovo progetto chiamato Blake/e/e/e, infatti, trova maturazione all’inizio di questo 2008 e compimento in Border Radio, il debutto nei negozi a inizio ottobre. Se la tentazione di paragonare ogni nota, ogni passaggio, ogni voce di questo lavoro al progetto che fu è tanta, non si può dire lo stesso della reale corrispondenza tra i due volti di Iocca-Riccardi. Perché Blake/e/e/e è un contenitore di strani suoni, di strane figure, strani sapori. Se la base folk pare richiamare le radici statunitensi dei Franklin, tutto ciò che c’è attorno ne fugge velocissimamente. Ed è così che il corredo strumentale sa di psichedelia e semi di peyote. Un sound sinistro, che si nasconde sotto la dolcezza della chitarra acustica, del banjo, dei mandolini per venire fuori improvvisamente. Paolo Iocca, dunque, traghetta il suo amore viscerale per gli States e molto dell’esperienza musicale di Chicago e lo frulla con tutto ciò che gli passa in testa in quel momento. Vedi Dub-Human-Ism: una specie di spiritual robotico, che parte sacro e deriva in consolle. Vedi la new wave di Time Machine che suona Bauhaus o Holy yes to sunny days tra Faust e Calexico. D’altronde la definizione migliore di che cosa sono questi Blake/e/e/e la danno loro stessi nel MySpace: It’s Beach Boys going to church where the church becomes a mutant disco, astral instrumental, howling at the shooting stars. Ma c’è soprattutto un elemento che pare decisivo nell’attribuire a questo disco molti voti: pare fregarsene di tutto, sembra giocare con la propria immagine riflessa. Fa di tutto per frantumare specchi, fare a brandelli foto di famiglia, buttare in mare vecchi vestiti e quaderni. Un disco insomma che parte senza valigia, che viaggia nomade, che non ha radici. Canzoni da “radio di confine”, là dove tutto è possibile, là dove i mondi si mescolano, là dove i limiti sono così vicini da superarli con un saltello.
(2008, Unhip Record)
01 Holy Dub
02 Mew Millennium’s Lack Of Self Explanation
03 The Great Rescue Episode
04 Narrow Zone
05 Time Machine
06 The Thing’s Hollow
07 Holy Yes To The Sunny Days
08 Dub-Human-Ism
09 Border Radio
10 Saint Lawrence Tears
A cura di Riccardo Marra