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Bon Iver – SABLE, fABLE

Justin Vernon veste un berretto rosso e inforca una montatura trasparente. La sua barba è morbida e abbondante come quella dei veri “into the wild”. Aspro e poi sereno il suo sguardo, proprio come il Winsconsin. Ma questa è un’immagine solo parziale perché è difficile, a questo punto della storia, scovare il vero Vernon, difficile soprattutto se si usa il territorio Bon Iver come strada sotto i piedi. Un moniker che, negli anni, si è dimostrato tutto e il contrario di tutto. Partendo dal folk, passando per la indietronica, la world music, il pop e il jazz. E anche oggi che il progetto raggiunge il suo quinto passaggio (secondo la presentazione della Jagjaguwar anche il suo “epilogo”), il focus è spostato, nascosto tra i cespugli umidi, le vetrate improvvise, il senso della musica più ampio.

SABLE, fABLE, che arriva a sei anni dal precedente “i,i” (2019), è un disco che compie la giravolta completa. È intanto un doppio album perché composto dall’EP “SABLE” e poi da una seconda parte corposa di nove canzoni. Ma se l’EP ci riporta sui territori di “For Emma, Forever Ago” (2008), con la eco della solitudine e delle albe passate in isolamento (bellissimo il sax che entra in AWARDS SEASON), il disco vero-e-proprio scaraventa Justin in una discoteca anni Settanta dalle poltroncine macchiate di cocktail e rossetto. L’R&B che attraversa le tracce è implacabile e fastidiosamente insistente. Vernon con una camicia slim nera, profumo addosso e una barba segmentata, si apre a mondi pop, talmente dolciastri, da risultare fittizi. Pezzi come Everything Is Peaceful Love,cantato come un Lionel Richie, Walk Home in cui la sua voce è rotondissima ma poi filtrata da un effettaccio, Day One che potrebbe essere un surrogato di gospel, e il pop molliccio di From… sono pietre di un monile dal dubbio valore, per non dire addirittura patacca.

Chi è Justin Vernon? Cos’è Bon Iver? Cosa sopravvive dell’uno e cosa dell’altro? Matriosche di identità che non fanno sconti. Il senso delle cose viene forse conservato in brani come If Only I Could Wait e dal bozzetto Short Story, dove il soul è quantomeno emozionale ed evocativo, e nel finale strumentale Au Revoir, rugiada di un album poco a fuoco. La sincerità non è uno stile, per carità, non ha nulla a che vedere con i generi musicali. Si può cambiare rimanendo sinceri. Ma si cambia anche, alle volte, perché non si è più sinceri. Ed è un epilogo.

2025 | Jagjaguwar

IN BREVE: 2,5/5

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