Chi ha avuto il piacere di ascoltare il primo album a firma Justin Vernon, “For Emma, Forever Ago” del 2008, concorderà che l’intensità emozionale di quel lavoro è cosa più unica che rara. E che, come nelle migliori tradizioni fiabesche, soltanto l’autore potrebbe riuscire a superarsi, alzando di una tacca o più il livello. E’ per tale ragione che l’omonimo Bon Iver, dato alle stampe in questo 2011, è stato di certo fra le pubblicazioni più attese dell’anno in corso, con l’onere di rappresentare il seguito di un album mitizzato davvero in pochissimo tempo. L’elemento cardine che, però, rendeva inarrivabili le composizioni d’esordio era così personale – ovvero la storia d’amore dello stesso Vernon andata in fumo – da non consentirne una nuova e totale riproposizione. Cosa che, puntualmente, non è infatti avvenuta. Ciò non toglie, comunque, che con questa sua seconda opera il cantautore americano riesca nell’intento di confermarsi cantore intimista e menestrello dell’anima come pochi altri. Cambiando però i propri punti di riferimento, tanto per l’ispirazione (svanisce il “fantasma” di Emma) quanto musicali. Già con “Blood Bank”, ep datato 2009, si era avuto sentore della svolta sonora intrapresa da Vernon che, abbandonata almeno in parte la sei corde acustica che gli aveva tenuto compagnia in quell’innevata baita del Wisconsin in cui era stato concepito l’album del 2008, s’era dedicato ad inserti elettronici e ad una ricerca vocale fatta di filtri e sovraincisioni. Non sorprende quindi che “Bon Iver” segua quella strada, presentando dieci brani decisamente più costruiti e strutturati, in cui fanno capolino “nuove” strumentazioni (vedi il sax, oltre alla già citata elettronica) e in cui a prevalere sembra essere l’aspetto corale (leggasi “della band”) piuttosto che quello individuale del titolare del marchio Bon Iver. E poi il fil rouge che unisce le tracce, tappe solitarie di un viaggio non solo mentale ma anche geografico (basti leggere i titoli delle canzoni), affrontato da Vernon come un progressivo e graduale allontanamento dal dolore. Ma, al di là degli aspetti meramente tecnici e/o concettuali, è proprio il semplice ascolto dell’album ad evidenziare la maturazione di un percorso, l’arrivo della primavera dopo il rigido inverno, con tutta la benevola banalità che può stare dietro una metafora del genere. La sensazione è che, seppur in modo diverso dalla prima volta, Bon Iver abbia fatto ancora centro.
(2011, Jagjaguwar / 4AD)
01 Perth
02 Minnesota, WI
03 Holocene
04 Towers
05 Michicant
06 Hinnom, TX
07 Wash.
08 Calgary
09 Lisbon, OH
10 Beth / Rest
A cura di Emanuele Brunetto