”Mi sento più grande della somma di ogni mia parte. Una bestia domestica con un cuore peloso intrappolato in un sobborgo fortificato. Ho trovato. I miei gusti sono sotterranei, tra le ombre e le incrinature. Sto costruendo la mia utopia”. La musica non è un lavoro. O almeno, non dovrebbe esserlo del tutto. L’ispirazione, le suggestioni, la resina creativa, sono elementi che un artista dovrebbe secernere spontaneamente senza il fiato sul collo dei contratti e degli obblighi firmati. Brendan Perry è uno di quegli artisti che ha sempre dettato il momento, cambiato in corsa, ingollato il siero della musica con assoluta naturalezza. “Eye Of The Hunter” del 1999 (suo primo album da solista) arrivò dopo il grande successo con i Dead Can Dance, sciolti, l’impegno world music insieme al fratello Robert fu una sorpresa per molti. Ora, a undici anni di distanza, Ark arriva quando meno te l’aspetti ed è un disco profondo come un pozzo artesiano in cui è calato il significato dell’esistenza. Musicalmente le differenze con “Eye Of The Hunter” sono parecchie. Nel disco del ’99, Brendan si muove nel dark, nella colorazione buia del rock, nella densità degli strumenti analogici. Oggi, invece, il fiato che spinge l’arca di Perry è quello delle macchine: la maggior parte dei suoni sono sintetizzati: dalle chitarre ai corni, agli strumenti a corda e ai cori. E Brendan fa tutto da solo: fa pulsare i suoni, vibrare batterie e percussioni. Ci mette la voce, lontana, memoria di mondi e geografie. Canta le sue riflessioni sulla politica, sullo stato delle cose, sulle relazioni umane, ma lo fa fasciato di uno strato di arcaismo. Come un luogo, un rifugio con pochissime feritoie, come la pagina di un libro le cui pagine sono fragili e antiche. Perry sale su un’arca (“Ark”) e canta l’umanità. “Ark” così è un chakra. Una suggestione continua che non fa che aumentare l’aura quasi mistica che già vantava Perry grazie alle pietre miliari dei Dead Can Dance e ai suoi magnifici cameo e collaborazioni (l’ultima nel bel “Ovations” dei Piano Magic). Un disco d’amore sull’uomo, sulla natura, sul piacere di scrivere e fare musica, indipendentemente dallo zoo del music business.
(2010, Cooking Vinyl)
01 Babylon
02 The Bogus Man
03 Wintersun
04 Utopia
05 Inferno
06 This Boy
07 The Devil And The Deep Blue Sea
08 Crescent
A cura di Riccardo Marra