Devo dire che fa strano, nel 2020, scrivere di un nuovo disco targato Bright Eyes. Insomma, se devo collocare “storicamente” nel tempo questo gruppo – che poi fa capo principalmente a Conor Oberst – riesco a farlo solo nel primo decennio di questo millennio. Non che dopo Oberst non abbia pubblicato altri dischi e in alcuni casi anche di buon livello (segnalerei “One Of My Kind” del 2012 con la Mystic Valley Band e poi la doppietta per la Nonesuch composta da “Ruminations” del 2016 e “Salutations” del 2017), ma penso – ecco – che la sua parabola sia in qualche modo significativa per dare un senso a quello che ha significato “indie” dal 2000 in poi.
Ricordo un articolo uscito sul Mucchio Selvaggio al tempo della pubblicazione di un disco bello e importante per quegli anni come “I’m Wide Awake, It’s Morning” (2005), in cui si metteva il giovane Oberst a confronto con una figura storica del genere “indie” come Lou Barlow. Allora forse la cosa sembrava avere un senso, ma oggi penso che il piano sia completamente stravolto. Lungi da me parlare di ragioni di tipo commerciale, molto semplicemente penso che chi abbia voluto ricercare radici comuni tra quel genere “indie” inteso come tale tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta e quello che è venuto dopo, abbia preso una cantonata.
Poco importa. Voglio dire che le classificazioni non sono il mio forte e in fondo interessano veramente poco. Diciamo che Down In The Weeds, Where The World Once Was è chiaramente un disco dei Bright Eyes nel senso che è un disco di Conor Oberst (completano il trio Mike Mogis e Nate Walcott) che esce oggi invece che quindici/venti anni fa, ma che rispetto ad allora non ha la stessa freschezza e non riesce neppure a mettersi sulla scia delle produzioni del nostro scrittore di canzoni degli ultimi anni.
Le canzoni del disco non sono esattamente brutte, ma nessuna spicca sulle altre: non c’è quella sensibilità istintiva che aveva colpito a suo tempo un’intera generazione, Oberst sembra volersi calare in un mood che giustamente non gli appartiene più e che aveva in effetti cercato di de-mistificare con il lavoro con la Mystic Valley Band, senza però riuscirci, tant’è vero che a un certo punto è scoppiato e si è ritirato in montagna, dove poi ha scritto “Ruminations”. I pezzi migliori sono quelli dove ricerca una maggiore enfasi di tipo romantico e dove offre le prestazioni vocali più sincere e di cuore rispetto alle altre, penso a Dance And Sing, Forced Convalescence, Calais To Dover, anche Comet Song. In effetti le migliori cartucce, nel disco, vengono sparate alla fine.
Conor Oberst mantiene qualcosa di particolare sul piano espressivo per ciò che riguarda il suo modo di cantare, una forza espressiva che è genuina, ma che cappare “costretta” in qualcosa che non gli appartiene e che, di conseguenza, non può appartenere neppure a noi ascoltatori. Forse ha sentito il bisogno di ritornare al progetto Bright Eyes (l’ultimo disco, “The People’s Key”, era uscito nel 2011) per provare a ritrovare se stesso. Ma in questo caso mi sento di dire che il passato non esiste, non puoi afferrarlo, ti ci puoi attaccare, ma quando mai farlo ha portato a qualcosa di veramente buono? Forse è il caso di lasciarli andare (di nuovo) e coraggiosamente liberarli da un’etichetta che in questo caso indicava più una sorta di moda che un genere vero e proprio. Sono convinto sappia scrivere belle canzoni, può ancora farlo, ma qui non ci è riuscito.
(2020, Dead Oceans)
01 Pageturners Rag
02 Dance And Sing
03 Just Once In The World
04 Mariana Trench
05 One And Done
06 Pan And Broom
07 Stairwell Song
08 Persona Non Grata
09 Tilt-A-Whirl
10 Hot Car In The Sun
11 Forced Convalescence
12 To Death’s Heart (In Three Parts)
13 Calais To Dover
14 Comet Song
IN BREVE: 1,5/5