Si potrebbe dire tutto ciò, e a quel punto interverrebbe un esercito di fan a cercare di corcarci, per usare un’espressione di un dialetto differente, ma altrettanto meravigliosa. Sì, perché l’esercito del Boss, in costante espansione dagli anni ’70 ad oggi, lo ama ciecamente, così come lo ama ciecamente (e in maniera ben più ottusa ed acritica dei fan) la critica, che conferisce cinque stelle, dieci e lode e corone d’alloro ad ogni emissione di aria dal posteriore del nostro eroe, spiegandoci per pagine e pagine come e perché, nonostante sia la medesima cagata che ha pubblicato sei mesi prima, il più che prolifico Bruce abbia sfornato un nuovo capolavoro.
E’ pur vero, tuttavia, che è impossibile avere in antipatia il Boss. E’ così dannatamente sincero in ciò che fa, così puro, lavora così duramente che è veramente arduo parlarne male.
Analizziamo questo nuovo High Hopes, ad esempio: una raccolta di pezzi eseguiti sinora solo dal vivo, di b-side, riletture e cover: apparentemente un’obbligazione contrattuale, come vocifera qualcuno. Obbligazione o meno, Springsteen ha sputato il sangue anche su questo lavoro come su qualunque uscita a suo nome, scervellandosi sulla tracklist, impegnandosi a registrare in studio tutto da capo pur avendo a disposizioni registrazioni precedenti (come nel caso di American Skin, originariamente pubblicata nel 2001 in memoria di Amadou Diallo – giovane nero disarmato ucciso dalla polizia – e ripescata nel tour 2013 a commento del simile caso Martin-Zimmerman, che ha monopolizzato i media per mesi negli Stati Uniti) o dal vivo.
Saranno contenti, contentissimi, i fan che hanno modo di sentire la E-Street Band arricchita del suo 19esimo componente, niente di meno che Tom Morello dei Rage Against The Machine, che è stato ingaggiato per coprire l’assenza di Steven Van Zandt, impegnato con la sua prima serie tv da protagonista (ma comunque presente in queste registrazioni). Morello si inserisce in maniera sorprendentemente adeguata, e porta anzi una ventata di aria fresca nel suono un po’ stantio della band, in particolare in assoli brillanti come quello della rilettura di The Ghost Of Tom Joad, già presente nel repertorio dei RATM, o nella strepitosa parte ritmica della title track, cover degli Havalinas (in una versione ovviamente differente da quella presente sull’extended play “Blood Brothers” del 1996).
Eccettuati alcuni episodi, tuttavia, la raccolta è tutt’altro che fondamentale: gradevole perché non monolitica come le ultime uscite (in particolare il soporifero “Wrecking Ball” del 2012) e per una volta minimamente eclettica nei suoni, ma rivelatrice nel senso che palesa il deterioramento del livello della scrittura del boss: i pezzi che risultano qui di maggior valore sono infatti quelli più risalenti e le cover, la citata title track, Just Like Fire Would ed una sontuosa Dream Baby Dream dei Suicide, inferiore per intensità alla versione dal vivo, ma talmente riuscita nell’arrangiamento e nell’esecuzione che lo stesso Alan Vega ha dichiarato di volerla al suo funerale.
I fan avranno anche modo di apprezzare registrazioni di Danny Federici e Clarence Clemons, venuti a mancare purtroppo l’anno scorso; l’ascoltatore occasionale-non ossessivo invece troverà una raccolta gradevole seppur non strepitosa e l’ormai consueta sequela di pastone retorico marca Boss.
(2014, Sony)
01 High Hopes
02 Harry’s Place
03 American Skin (41 Shots)
04 Just Like Fire Would
05 Down In The Hole
06 Heaven’s Wall
07 Frankie Fell In Love
08 This Is Your Sword
09 Hunter Of Invisible Game
10 The Ghost Of Tom Joad
11 The Wall
12 Dream Baby Dream
IN BREVE: 1,5/5