È un gancio fin troppo scontato − e per questo tremendamente appetibile − quello che i Bush ci danno con il titolo del loro nono lavoro in studio, The Art Of Survival, ovvero l’arte della sopravvivenza. Chi meglio di loro potrebbe raccontare come si fa a sopravvivere artisticamente al diffuso disprezzo di una scena, quella post grunge, che li vedeva alieni perché inglesi e non americani, falsi come una moneta da tre euro solo perché arrivati in ritardo rispetto agli altri, finti perché Gavin Rossdale finiva con più frequenza sulle copertine dei rotocalchi rosa anziché su quelle di Kerrang! e NME. Loro in fondo se ne sono sempre ampiamenti infischiati, perché sapevano di essere fra i più dotati di quel calderone post e perché, in fondo, non hanno mai voluto né creduto di essere grunge (come trequarti di coloro i quali hanno “subito” quell’etichetta), qualsiasi cosa abbia mai significato la definizione più abusata e usata a sproposito della storia del rock.
La seconda carriera dei Bush dopo il decennio di iato è nata nel 2011 all’insegna del “facciamo quello che ci pare, ché i conti in banca li abbiamo già gonfi”, così abbiamo ritrovato Rossdale e i suoi a flirtare col pop (che era sempre stato lì in un angolo, pronto ad entrare in scena all’occorrenza − occorrenza che qui ritroviamo in una ballatona come Creatures Of The Fire), a tentare sortite sintetiche e, più di recente, a pompare il proprio sound di pari passo alla muscolatura di Rossdale. Ecco, nel caso specifico del precedente “The Kingdom” (2020) e soprattutto di quest’ultimo “The Art Of Survival”, gli anabolizzanti usati dai Bush sono quelle chitarrone di stampo prettamente crossover/nu metal che infarciscono gran parte dei nuovi brani, a partire dal singolo More Than Machines (che trasuda pesantemente Korn) e passando per Human Sand, Identity, Judas Is A Riot e Gunfight (ma potremmo tirare in ballo praticamente ognuno dei dodici pezzi della tracklist).
Chi apprezzava già da prima i Bush non avrà difficoltà a ritrovarsi anche in “The Art Of Survival”, perché il disco suona davvero molto bene e ha un piglio heavy che appare tutt’altro che posticcio. Ma difficilmente chi non si è mai approcciato alla formazione inglese troverà qui un motivo valido per farlo, perché ancora una volta i Bush hanno confezionato un prodotto decisamente fuori tempo massimo, che paga pegno ad esperienze già datate (abbiamo detto del nu metal, ma non pensate mica che il grunge sia stato dimenticato, visto che c’è una bella dose di classici Alice In Chains − con cui hanno da poco condiviso un tour − in diversi passaggi, vedi la traccia d’apertura Heavy Is The Ocean) mettendoci un po’ troppo poco di proprio. Ma i Bush sopravvivono, questo è certo.
(2022, BMG / Zuma Rock)
01 Heavy Is The Ocean
02 Slow Me
03 More Than Machines
04 May Your Love Be Pure
05 Shark Bite
06 Human Sand
07 Kiss Me I’m Dead
08 Identity
09 Creatures Of The Fire
10 Judas Is A Riot
11 Gunfight
12 1000 Years
IN BREVE: 3/5