Ma avete capito bene cosa ha iniziato, Cesare Basile, in quel fatidico 2013, anno in cui ha introdotto con nettezza l’uso del dialetto siciliano nel suo canzoniere? Avete capito quanto il suo percorso stia scrivendo un nuovo racconto sulla Sicilia? Le storie, le leggende, i cunti, la divulgazione orale, attendevano da tempo qualcuno che li riallacciasse a tessuti nuovi.
Ecco, questo sta facendo Cesare da sei anni: passare vecchie stoffe in vasche di tintura. Il passato è versato lì per risalirne pitturato dell’oggi. È un’operazione dura, ci vogliono muscoli e pazienza. Ma Cesare ha scelto di farlo senza ripensamenti. Cesare ha scelto di cuntare e cantare. Oggi il quarto capitolo di questo “ritorno a casa” si intitola Cummeddia e racconta sciagura e speranza di un popolo.
Gli odori sono quelli intensi dei crocicchi, i suoni quelli mescolati di vuciate, olio di oliva, eco e disperazione. “Cummeddia” in siciliano significa cometa e idealmente taglia il cielo delle undici canzoni di questo albo. È una cometa bella, avvolta dal fuoco, sembra un segno di Dio ma in realtà annuncia la peggiore delle sventure: l’arrivo della peste. “Comu ci finemmu ‘nta st’esiliu, regnu di tirribiliu?” (come siamo finiti in questo esilio, regno di terrore?) – litania Basile nella title track e non è chiaro se si riferisca alla peste del passato o al buio moderno. Una pioggia terrosa impasta le strade di puzzo di pesce. La cometa è passata e, nella confusione, i potenti trovano la scusa per commettere le peggiori meschinità. Le canzoni di Basile quindi raccontano personaggi incatenati ma che covano la protesta. Come ne La Curannera.
Siamo in Sicilia e potremmo trovarci in Nord Africa. I suoni scoppiettano nel cemento. La figlia della curannera (la lavandaia) è una ragazza che osa far detonare la sua giovinezza. È sola, dovrebbe lavorare, ma balla al ritmo di un tamburo. Le sue carni toniche grondano di sudore, i fianchi si muovono sinuosi, è scalza, chiude gli occhi. È il trionfo della libertà. Basile canta teso, sostenuto da un coro sapido di acqua di mare, ma fiaccato dal vento di scirocco. La ragazza osa come il popolo quando è felice. E, quando accade, c’è sempre qualcuno pronto a rimetterlo in riga a colpi di bastone, proprio come la lavandaia che di ritorno dalle fatiche ripasserà la figlia “ccu la mazza”.
In Mala la terra Basile sorvola lo scenario come l’elicottero che apre la canzone. Un blues mediterraneo senza possibilità di equivoco: “Mala la terra che è Patria” – ribatte il rantolo di voci. Un conto è la terra, un altro è il concetto di Patria: semina dalla lettera maiuscola imposta contro natura e che produce erba velenosa. Il tema torna in E sugnu talianu: le chitarre artigianali di Cesare suonano come marranzano ma più sinistre. La storia è quella di un popolo che si ritrova a cambiare nome a sua insaputa (“Nascii ‘n Sicilia e sugnu talianu”) senza però mutare in meglio la propria condizione.
Stessa sorte degli omosessuali siciliani al tempo del fascismo; ne L’Arvulu Rossu Basile ne ripercorre il dramma. Chiamati infetti, malati, deviati, diventano diavoli da scacciare. Basile cita Alfonso Molina, il questore di Catania che nel 1939 ordinò ispezioni corporali per accertare il “morbo” degli iarrusi facendoli poi deportare alle Isole Tremiti, allontanati da affetti e radici. L’Arvulu Rossu è una delle canzoni più dure di Cesare. Un seltz al limone da buttare giù tutto d’un fiato. Senti il bruciore alle budella, l’amaro in bocca, l’aspro. E quella naturale sensazione di aver ancora molto lavoro da fare. Soprattutto ora che, naso all’insù, fiammeggia in cielo una nuova cometa.
(2019, Urtovox)
01 Mala la terra
02 L’Arvulu Rossu
03 E sugnu talianu
04 La Curannera
05 Setti venniri zuppiddi
06 La naca ri l’anniati
07 Chiurma limusinanti
08 Cummeddia
09 Chitarra rispittusa
10 Cchi voli riri
11 Mina lu ventu
IN BREVE: 4/5