Amata tanto dai metallari dall’orecchio sensibile quanto dagli hipster in cerca di qualche nome oscuro da sfoggiare nella lista dei like di Facebook, la Wolfe ha sin qui dimostrato un certo eclettismo. Con “Apokalypsis” ha dato vita a un particolare post-punk malinconico e psichedelico, ma con un che di desertico che ne trasfigurava i paesaggi sonori. Lo scorso anno con gli acquerelli acustici di “Unknown Rooms: A Collection of Acoustic Songs” la dimensione s’è fatta più intima e autunnale, pur mantenendo però il tratto sperimentale di una scrittura che ricusa gli schemi della forma canzone. A distanza di quasi un anno, il come back della Wolfe segna un ulteriore cambio stilistico.
Avvolta in un mantello electro-pop pregevole e mai zuccherino, Chelsea intona la sua ode al dolore raggiungendo picchi di poesia e sofferenza sin qui mai lambiti. Basta solo immergersi nell’infinita malinconia di The Waves Have Come per coglierne il nuovo corso, una suite malinconica in cui il mare invernale tormentato da un vento glaciale evoca lo scintillio del pianoforte di Erik Satie culminando in un finale da brividi.
Pain Is Beauty si dipana sinuoso tra omaggi (quasi al limite del plagio, però) ai Cocteau Twins (They’ll Clap When You’re Gone) e tormenti alla PJ Harvey (We Hit A Wall), fiorisce in intarsi barocchi (The Warden) e ondeggia tra nubi fosche ed echi dei Dead Can Dance (Sick), aggredisce alle costole con Feral Love e muta pelle strisciando tra i cunicoli sotterranei dell’anima (Reins).
Il canto accorato della Wolfe volteggia su candide scie di riverberi e si dissolve lasciando impronte sulla neve. Il risultato finale è un affresco decadente, la trasposizione sonora dei versi di Rimbaud.
(2013, Sargent House)
01 Feral Love
02 We Hit A Wall
03 House Of Metal
04 The Warden
05 Destruction Makes The World Burn Brighter
06 Sick
07 Kings
08 Reins
09 Ancestors, The Ancients
10 They’ll Clap When You’re Gone
11 The Waves Have Come
12 Lone