La storia del rock’n’roll, al momento e da molto tempo, è un affare per nerd; la storia quella con le date, le analisi sociologiche, lo studio del metro, del back beat, del sincopato, eccetera. È un peccato, perché è una storia meravigliosa, un romanzo pieno di colpi di scena e di scene meravigliose, di storie di cattiveria, di bontà, di forza di volontà, di sesso, di droga, di invenzioni, di grandi uomini.
In questa storia c’è ovviamente un inizio, ma i nerd sono più proni all’analisi di quanto si possa immaginare, ergo c’è in corso, da più o meno una cinquantina d’anni, una defatigante diatriba su quale sia il giorno X: c’è chi dice che sia quando Billy Haley, uno che sembra lo zio che ai pranzi di Natale esagera sempre con l’amaro, trasformò scientemente il suo gruppo country e western, i Saddlemen, in una band rhythm and blues, i Comets, sfornando una serie di successi iniziati con “Crazy Man, Crazy”; c’è chi sostiene sia Elvis, guidato da Sam Phillips, ad aver dato una spruzzata country a “That’s Allright Mama”, vecchio blues di Big Boy Cudrup, e una spruzzata di blues e un cambio metrico a “Blue Moon Of Kentucky” del re del bluegrass, Bill Monroe. C’è chi dice “Caldonia” di Louis Jordan, chi dice “Good Rockin’ Tonite” di Wynonnie Harris, chi ancora sostiene sia “Rocket 88” di Jackie Brenston (in realtà la band era di Ike Turner) del 1951.
Tra tutte queste teorie e storie, storie meravigliose che andrebbero raccontate in dettaglio se ce ne fosse il tempo, ce n’è una che ci riguarda, al momento – che poi è una delle teorie più accreditate: un giovane furbastro di St. Louis che si inserì nella band del magnifico pianista blues Johnnie Johnson diventandone immediatamente il leader, un giovane nero, dettaglio non irrilevante ai tempi, che suonava country e hillbilly (oltre al blues, al rhythm and blues, al calipso). Questo bel ragazzone, buon chitarrista dallo stile molto personale e scaltro showman che sul palco diventava inarrestabile, decise di tentare la fortuna a Chicago dove, istigato da Muddy Waters, si rivolse ai fratelli Chess, ai quali presentò un blues copiato da Big Joe Turner nel quale scintillava Johnnie Johnson, e un pezzo classico da hillbilly, quella “Ida Red” resa famosa da Bob Wills nel 1938 in una versione molto ritmata che fu un grosso successo nelle sale da ballo (per bianchi e curiosamente anche in quelle per neri).
I fratelli Chess non rimasero impressionati dal pur ottimo blues, ma gli si fecero gli occhi a forma di cuore (e di dollaro) a sentire un pezzo così tipicamente bianco cantato da un ragazzo nero, con stile, gusto, efficacia. Gli cambiarono il titolo (“Maybellene” invece di “Ida Red”, dal mascara appoggiato su un tavolinetto dello studio), ed il resto è noto, uno dei Re del rock’n’roll, senza il quale Springsteen, Lennon e Keith Richards forse non sarebbero esistiti come li conosciamo, senza il quale un tre quarti delle band rock scomparirebbe come i fratelli di Marty McFly scomparivano dalla foto in Ritorno al Futuro – ironico, considerato che la scena madre del film usa Johnny B. Goode.
Tanti alti e bassi in carriera ed una produzione che ha sofferto la tirchiaggine ed il carattere terribile che ha reso, a lui e a chiunque gli fosse intorno, la vita estremamente difficile, senza contare diversi problemi legali e band non all’altezza. A 89 anni, pochi mesi prima di lasciare questa terra crudele in cui per buona parte della sua vita non si è potuto fidare di nessuno, Chuck registra il suo ultimo disco, aiutato dai suoi figli, da poche guest star (due, per l’esattezza Tom Morello in Big Boys e Gary Clark, Jr. in Wonderful Woman) e suona sinceramente rilassato, finalmente in pace.
A dispetto di una – meritatissima – reputazione per il riciclare melodie e riff e del precedentemente citato basso livello di alcune sue band, il catalogo di Chuck è ricchissimo di gioielli di differente fattura, e qui, in forma nonostante la veneranda età, fa una carrellata di poco più di mezz’ora di ciò che lo ha reso famoso. Rivisita “Johnny B. Goode” (trasformandola in Lady B. Goode) e “Havana Moon”, eccellente pezzo nella sua versione originale dalle influenze tropicali, qui divertente divertissement reggae ridenominato Jamaica Moon. Il lato blues di Chuck esce fuori nella ottima Dutchman, una spoken word basata su un groove da blues bar, lento e cattivo, e in un già classico come You Go To My Head.
Non c’è chiaramente da aspettarsi un altro “Blackstar”: Chuck è stato un innovatore straordinario, ma probabilmente disinteressato al lato prettamente artistico, con testi per i teenager, che alla metà degli anni ’50 incominciavano ad avere soldi da spendere, e atteggiamento da vero showman Chuck probabilmente non intendeva rivoluzionare la storia della musica, voleva solo fare un po’ di soldi e successo e divertirsi con buona musica mentre lo faceva.
La storia è andata in maniera ben più complicata, ma questo è il giusto addio a Chuck: un disco godibile, rilassato, di buon rock’n’roll come piaceva a lui, coi riff che piacevano a lui e il suono che piaceva a lui – il disco l’ha prodotto il vecchio Chuck, e se non lo conoscessimo penseremmo che si tratta solo di un credito dato in maniera onoraria, ma probabilmente ha detto esattamente ad ognuno dei partecipanti come fare ogni secondo che hanno passato in studio a registrare. Diceva John Lennon “If you had to give rock and roll another name, you might call it Chuck Berry”. Non ce la sentiamo di dargli torto.
(2017, Dualtone / Decca)
01 Wonderful Woman
02 Big Boys
03 You Go To My Head
04 3/4 Time (Enchiladas)
05 Darlin’
06 Lady B. Goode
07 She Still Loves You
08 Jamaica Moon
09 Dutchman
10 Eyes Of Man
IN BREVE: 3,5/5