Che ci frega dell’innovazione? Che ci importa dell’avanguardismo o di quei soporiferi discorsi sull’evoluzione artistica ai quali noi stessi, ogni tanto, non abbiamo avuto la forza di sottrarci quando ci si trova al cospetto di una band come i Clutch? Avete indovinato, non ci interessa proprio un gran bel niente di tutte ste faccende. E il perché è semplice e abbastanza cristallino. Dai Clutch non pretendiamo altro al di fuori di quel che ci hanno propinato dal 1993 (momento del loro esordio discografico) ad oggi, Anno Domini 2009 che li vede al ritorno in pista col loro nono cesello in carriera, Strange Cousins From The West. Veterani della scena southern-stoner americana, i quattro del Maryland guidati come sempre dall’indistruttibile Neil Fallon perseverano nella conservazione del proprio trademark, noncuranti delle mode, senza con ciò suonare anacronistici o rammolliti. La qualità della loro produzione si è fin qui mantenuta su livelli ottimali ed in alcuni casi è salita su fino ad eccellere (il masterpiece “Pure Rock Fury” del 2001 parla chiarissimo) e nel frattempo la grande massa – ma anche quel bacino di ascoltatori di un certo tipo di musica un po’ fuori dai canali mainstream – li ha snobbati senza sapere magari che la loro esistenza è di fondamentale importanza per la comparsa di una band come i Mastodon, i quali gli sono debitori in termini stilistici (e per ribadire l’intrallazzo basta ricordare che Fallon appare in “Blood And Thunder”, oramai un classico dei mastodonti di Atlanta). Lungo preambolo a parte, “Strange Cousins From The West” è uno di quei dischi che lasciarseli sfuggire meriterebbe il taglio delle mani o delle palpebre, in onore di un’antica tortura apache. Perché questa è roba di un certo spessore, robusta ed artisticamente valida. Capita di rado di ascoltare canzoni fortemente legate a certe tradizioni che hanno sul groppone più di tre decenni almeno e che non stancano dopo due passaggi sullo stereo. I Clutch prendono lo stoner, prendono l’hard-rock, prendono anche il southern rock ed il blues, prendono tutte queste cose e le manipolano secondo le loro personali esigenze espressive, iniettando quella dose di energia e muscolare impeto indispensabili per far si che un disco di questo genere non risulti castrato e molle. Il groove bluesato di Struck Down è inarrestabile, così come lo è quello di The Amazing Kreskin, che sul finire si concede un’apertura più ariosa, più rock tout-court. Non mancano episodi incalzanti come Freakonomics o 50, 000 Unstoppable Watts, quest’ultima che attinge fino al fondo del pozzo dell’eredità di Jimi Hendrix. Per gli amanti del rock-blues ascoltare i Clutch equivale a raggruppare elementi di Lynyrd Skynyrd, Cream, Allman Brothers, Marshall Tucker Band e, appunto, Hendrix, il tutto rivisitato in una chiave più moderna. Lo slide dell’iniziale Motherless Child ci catapulta mette le cose subito in chiaro, poi l’andatura sincopata del brano si tramuta in un terremoto nel refrain. Minacciosa è Minotaur, col suo basso pulsante che cavalca un pavimento chimico, e non più rassicurante è Abraham Lincoln, hard-blues edificato su una marcia da guerra alquanto intimidatoria. Diciamo pure che Neil Fallon non ha perso un milligrammo del suo carisma e del suo timbro caldo e aggressivo nello stesso tempo e aggiungiamo che il resto della ciurma è impeccabile nelle dinamiche e nelle sovrastrutture e abbiamo detto tutto. Ora, tutto questo vi basta per mettere le mani su questo nuovo parto dei Clutch? Si, non possono sussistere dubbi a riguardo, a meno che viviate in una realtà non-razionale.
(2009, Weathermaker Music)
01 Motherless Child
02 Struck Down
03 50,000 Unstoppable Watts
04 Abraham Lincoln
05 Minotaur
06 The Amazing Kreskin
07 Witchdoctor
08 Let A Poor Man Be
09 Freakonomics
10 Algo Ha Cambiado
11 Sleestak Lightning
A cura di Marco Giarratana