Se una band riempie ripetutamente i palazzetti dell’intero globo terracqueo, se i dischi vanno a ruba e segnano traguardi di vendita inimmaginabili per la stragrande maggioranza dei colleghi, quella band ha intrapreso – secondo il suo insindacabile punto di vista – il percorso giusto. C’è davvero poco da aggiungere, i numeri non mentono (quasi) mai. Certo è, però, che i Coldplay di “Viva La Vida” (2008) e “Mylo Xyloto” (2011) avevano imboccato una strada piuttosto deludente per quanti ne hanno apprezzato l’aplomb british dei primi tre album. Un po’ troppa truzzaggine (passateci il termine), un po’ troppa attenzione verso la formula dell’inno pop che se limitata a qualche momento può anche starci, se lunga un album intero ci sta meno e finisce per stufare.
Che questo Ghost Stories fosse qualcosa di diverso dalle ultime uscite di Chris Martin e soci lo si era capito già nel mese di Febbraio, quando a sorpresa è stata diffusa Midnight. Forte della collaborazione con Jon Hopkins (uno che difficilmente sbaglia un colpo), pareva strano che i Coldplay avessero tirato fuori il primo vagito della loro nuova creatura senza che questo vagito somigliasse al resto del materiale: una delicatissima base elettronica e la voce di Martin filtrata dal vocoder, per un risultato molto molto vicino al secondo Bon Iver.
A sciogliere definitivamente ogni dubbio c’ha poi pensato il singolo Magic, con quel suo refrain orecchiabile incastonato in una sessione ritmica tutta in chiave digitale che detta al meglio i tempi. Stessa storia per Ink, che aggiunge al tutto anche un testo – magari banale, per come tratta l’amore – che spiega al meglio l’approccio alla scrittura adoperato da Martin per “Ghost Stories”.
Questi Coldplay non sembrano essere più quelli anthemici che hanno infiammato gli stadi, l’apertura affidata ad Always In My Head è quanto di più celestiale mai composto dalla band (sì, decisamente più di quella “Para-Para-Paradise” del disco precedente, che di celestiale aveva solo il titolo), mentre il finale con O si dipana – riuscendoci – in territori ambient. Nel mezzo troviamo una True Love che ricorda qualcosa di Twin Shadow, la storia strappalacrime di Another’s Arms (che c’entri la recente separazione di Chris dalla bella Gwyneth?) e, soprattutto, quel piccolo gioiello che è Oceans: tornano le chitarre acustiche degli esordi – quando ai Coldplay veniva rimproverato di somigliare troppo ai Radiohead – per un brano che sembra risalire direttamente a “A Rush Of Blood To The Head” (2002).
L’unica traccia fuori dal coro la troviamo quasi alla fine ed è l’altro singolo A Sky Full Of Stars, per il quale la collaborazione col dj Tim Bergling aka Avicii si sente tutta: torna la tamarraggine di cui sopra per un pezzo marcatamente dance di cui si stenta a comprenderne l’inserimento (a parte l’ovvio uso radiofonico e l’accostamento a uno dei nomi che va per la maggiore) in una tracklist per il resto estremamente omogenea e che, ad esempio, avrebbe visto bene il ripescaggio in “prima squadra” di quella “All Your Friends” inserita invece nella sola versione deluxe del disco.
A parte ciò, “Ghost Stories” si attesta come una lavoro ricercato che restituisce ai Coldplay quella dimensione intimista che tanti proseliti aveva fatto in passato, ben prima che questi proseliti continuassero comunque a furia di far ballare il pubblico. Anche la prova vocale di Chris Martin ne guadagna e non poco, contribuendo all’apprezzamento generale che ci sentiamo di rivolgere all’album. La speranza è che non resti un episodio isolato, perché degli ultimi Coldplay non sapevamo davvero che farcene, mentre così il discorso cambia sensibilmente.
(2014, Parlophone / Atlantic)
01 Always In My Head
02 Magic
03 Ink
04 True Love
05 Midnight
06 Another’s Arms
07 Oceans
08 A Sky Full Of Stars
09 O
IN BREVE: 3/5