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Crows – Beware Believers

Il titolo del sophomore dei Crows suona come un cupo monito verso coloro che credono nel bene (e nelle parole di alcuni politici) e vi sperano forse oltre misura. Inclusi nel calderone post punk inglese all’indirizzo “garage” con la benedizione di Joe Talbot, la cui label (Balley Records) si occupò della pubblicazione del loro debut, “Silver Tongues” (2019), il quartetto capitanato da James Cox per il suo secondo lavoro in studio ha firmato con la neonata Bad Vibrations Records, etichetta indipendente appartenente a Bad Vibes UK, promotrice e curatrice di interessanti eventi londinesi.

Testi esistenziali legati a tematiche sociali, dove a fare da sfondo è l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, ispirati da novelle distopiche di Vonnegut e Ballard, chitarre garage e noise immerse nel tenebrore gothic che affonda le sue radici nei Joy Division, e in parte nei Tuxedomoon, sono i capisaldi di Beware Believers, cheprende il largo anche verso piccole sperimentazioni di natura post-hc, nu gaze e qualche passaggio più “anthemico”, ma senza adagiarsi troppo. Oscura è anche la copertina dell’album in bianco e nero, disseminata di simboli esoterici come ogni artwork appartenente alla band.

Caricano a dovere i ronzii e le scosse elettriche abrasive ad opera del chitarrista Steve Goddard di Closer Still, preparando l’ascoltatore ad una delle tracce migliori dell’album, Garden of England, ottimo connubio di due minuti scarsi tra la “Feeling Fades” dei The Murder Capital, memorie caustiche degli Idles di “Joy As An Act Of Resistance” (2018) e un celato sottotono di blues e asperità lo-fi del primo Ty Segall, il cui testo esprime al meglio le conseguenze della Brexit e l’ondata di ipocrisia da parte di chi la predicava, che ha travolto il paese dividendo la gente sull’argomento e rafforzando il fronte nazionalista.

Prosegue sulla stessa strada il tornado di batteria lanciato da Sam Lister e le barriere sonore del ritornello di Only Time, accogliendo successivamente la pesante bassline di Slowly Separate, dove i taglienti guitar riff mimano i bagliori di luce intermittente citati nelle liriche, strizzando l’occhio in materia di sound anche agli orecchiabili The Hives. Si smorzano leggermente i toni con l’echeggiante Moderation, accelerando di nuovo in favore di altri due brani decisamente meritevoli, Healing, le cui strofe spigolose e ossessive si scontrano con le arie epiche della successiva, plumbea e noisy Room 156, uno dei punti più cupi del disco.

Si prende un po’ di respiro con il crescendo di Meanwhile, che si trasforma lentamente in una corsa a precipizio verso la chiusura con i ritmi serrati di Wild Eyed & Loathsome e The Servant, dissolvendosi nelle atmosfere stratificate e ovattate di Sad Lad, che arriva quasi a lambire il confine “darkgaze” (troppo scuro per essere shoegaze, non abbastanza pesante da avvicinarsi al blackgaze). “I know that everything hurts, but I know that everything can heal”, è in questo gioco di chiaroscuri espresso tra i versi di Healing, fragile e incredibilmente feroce allo stesso tempo, che l’equilibrato “Beware Believers” conferma i risultati ottenuti in precedenza dal gruppo londinese, rilanciando la loro vena trasformistica e ricerca sonora, senza staccarsi troppo dalla propria matrice di partenza e consegnando una valida e assai sudata prova.

(2022, Bad Vibrations)

01 Closer Still
02 Garden Of England
03 Only Time
04 Slowly Separate
05 Moderation
06 Healing
07 Room 156
08 Meanwhile
09 Wild Eyed & Loathsome
10 The Servant
11 Sad Lad

IN BREVE: 4/5

Martina Vetrugno
Studentessa di ingegneria informatica, musicofila, appassionata di arte, letteratura, fotografia e tante altre (davvero troppe) cose. Parla di musica su Il Cibicida e con chiunque incontri sulla sua strada o su un regionale (più o meno) veloce.