Fa un certo effetto parlare di esordio per uno come Damon Albarn che negli anni ’90 ha scritto le regole del britpop, che ha messo faccia e voce a una moltitudine di progetti sparsi nel tempo, nessuno dei quali passato in sordina per qualità e stile. Eppure non aveva mai firmato nulla a proprio nome, quindi va da sé che di esordio trattasi per questo Everyday Robots, a 46 anni suonati e con un quarto di secolo di carriera alle spalle.
L’aspetto singolare è che, dopo tutti questi anni, “Everyday Robots” è finalmente l’occasione giusta per Albarn di aprire il sipario della propria vita al pubblico, di smetterla di nascondersi dietro le quinte a fare da voce narrante e di piazzarsi finalmente lì, da solo al centro del palco, a parlare di sé senza maschere né metafore. Perché “Everyday Robots” è pieno zeppo delle sue storie, una lunga sequenza di emozioni, di esperienze e considerazioni, anche piuttosto datate, fatte da Damon in una vita intera.
C’è la consueta paura dell’incomunicabilità data dalla tecnologia, che viene fuori già nella title track che apre il disco (e che la dice lunga sul titolo stesso dell’album), con un testo che non lascia spazio ad ulteriori interpretazioni (“We are everyday robots on our phones / In the process of getting home”). Circostanza che ritorna anche nella seguente Hostiles e poi in The Selfish Giant (“It’s hard to be a lover when the TV’s on and nothing’s in your eyes”), che vede la seppur minima collaborazione con Bat For Lashes (Natasha Khan presta la propria voce nel ritornello).
In You & Me c’è addirittura il riferimento esplicito alla dipendenza dall’eroina che lo attanagliò ai tempi del successo planetario coi Blur, con la citazione di “tin foil and a lighter” (carta stagnola e un accendino) che suona ben più forte di una confessione. Albarn si porta dietro quel coro della chiesa di Leytonstone – cittadina dove viveva da ragazzino – che ascoltava dall’esterno mentre si aggirava nei paraggi e lo piazza in Mr Tembo. E rimanendo sull’aspetto strumentale, l’album è un po’ la summa delle varie anime di Damon: la passione per le percussioni africane (vedi la stupenda Lonely Press Play), piccoli cenni agli ultimi Blur (quelli più sperimentali di “Think Tank”), pianoforte, gospel, chitarra appena accennata, campionamenti estratti dalla valigia dei Gorillaz, fino ad arrivare alla conclusiva Heavy Seas Of Love, compendio del disco forte della collaborazione con Brian Eno.
“Everyday Robots” è, in definitiva, un lungo viaggio nel lato oscuro (ma non per questo intriso di tristezza) di un artista che pare aver sconfitto definitivamente i mostri che lo tormentavano, uno dei pochissimi “ex qualcosa” ad essere uscito ripetutamente indenne dal trascorrere del tempo e dall’inevitabile affievolimento della vena compositiva. Di una bellezza disarmante, è già uno degli album dell’anno.
(2014, Parlophone / XL)
01 Everyday Robots
02 Hostiles
03 Lonely Press Play
04 Mr Tembo
05 Parakeet
06 The Selfish Giant
07 You & Me
08 Hollow Ponds
09 Seven High
10 Photographs (You Are Taking Now)
11 The History Of A Cheating Heart
12 Heavy Seas Of Love
IN BREVE: 4/5