Una serie di progetti inaugurati e conclusi nel giro di pochissimo tempo (tra cui i Cajun Dance Party e gli Yuck), espressione della bulimia artistica di un ragazzo alla spasmodica ricerca della propria dimensione. Una salute mentale sempre sull’orlo del baratro. Una relazione, la più importante della sua vita, giunta al capolinea dopo parecchi anni. Mazzate che, sparse nell’arco di una decina d’anni, avrebbero sfiancato anche un toro.
E Daniel Blumberg c’è andato davvero vicino a non avere più la forza per fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ma per fortuna (sua e anche nostra) ha trovato le persone giuste con cui provare a mettere una pezza a una vita in equilibrio precario. La pezza s’intitola Minus, mentre le persone chiamate in causa sono il produttore Peter Walsh (in passato già all’opera al fianco di Scott Walker, circostanza non da poco) e la band che lo ha accompagnato nel corso della molteplici esibizioni al londinese Café OTO, tra improvvisazione e jazz, fuori da quegli schemi rigidi che avrebbero potuto solo nuocere alla sua ripresa.
Blumberg ci mette tutto se stesso in “Minus”, le fragilità dell’uomo, le debolezze dell’artista, l’assenza incombente esplicata già dalla title track che apre il disco, una disperata richiesta d’attenzioni in cui ripete a oltranza “Minus the intent to feel, I’m here”. Un rifiuto dei sentimenti che Daniel scarica invece sull’interlocutore, investito da un’intensità emotiva che neanche il più forte dei cuori potrebbe sopportare senza pagarne le conseguenze.
L’improvvisazione messa a punto al Café OTO è il minimo comune multiplo di gran parte di “Minus” e ha negli oltre dodici minuti di Madder la sua più efficace dimostrazione, in costante bilico tra la decadenza di un meraviglioso pianoforte e il rumorismo che si propaga sempre più intensamente nel pezzo fino all’esplosione finale. Pianoforte che in The Bomb si carica sulle spalle il peso di un macigno che altrove, invece, divide equamente con violini distorti (la marcetta Permanent), armonica (The Fuse) e percussioni ipnotiche (Stacked). Fino al finale con Used To Be Older, in cui tutto si condensa in aperture ariose che rimuovono la fuliggine e aiutano Blumberg a tornare a galla.
La formula non è certo una novità, ci sono un’infinità di Sparklehorse e Songs: Ohia (il parallelismo tra le personalità disturbate di Mark Linkous e Jason Molina e quella di Blumberg viene da sé), Nick Cave e Bonnie ‘Prince’ Billy, lo slowcore e il free jazz. Ma, come non troppo spesso accade, sono proprio le sensazioni rifuggite dall’autore a fare la differenza, sincere e viscerali, espresse da un disco che sembra venir fuori direttamente dal suo stomaco senza sovrastrutture di sorta. Un debutto da solista semplicemente meraviglioso.
(2018, Mute)
01 Minus
02 The Fuse
03 Madder
04 Stacked
05 Permanent
06 The Bomb
07 Used To Be Older
IN BREVE: 4,5/5