“Does humor belong in music?”. Se lo chiedeva niente meno che Frank Zappa nell’ormai lontano 1986 ed è una domanda che, a distanza di 33 anni (l’età di Cristo, coincidenza? Io non credo), sembra non riuscire a trovare una risposta univoca. I Darkness, sin dai loro esordi, sembrano nient’altro che una reiterazione costante di questa domanda – o perlomeno, potrebbero sembrarlo a chi non si premura di ascoltare la loro musica.
Sì, perché “Permission To Land” (2003), a dispetto di una copertina terribile, di un’immagine della band estremamente kitsch, di testi di un adorabile pessimo gusto, aveva fatto ciò che non si sentiva da anni (e che raramente si è sentito da allora): presentare un album perfetto di quello che si può chiamare “mainstream rock”, difatti largamente premiato dal pubblico e platealmente detestato da larga parte della critica, che ha tendenzialmente sempre visto di pessimo occhio le band rock dedite all’edonismo e non alla sofferenza (meglio se adolescenziale, ma non necessariamente).
Ma, conseguentemente ai guai col successo di Justin Hawkins, potentissimo falsetto, eccellente chitarrista solista e improbabile frontman della band, i Darkness non sembravano divertirsi più, e così gli album post rehab dei ragazzi del Suffolk, a dispetto dei proclami, a dispetto del “Nothin’s Gonna Stop Us”, sono annegati in un mare di mediocrità in tempo medio, noiosa come gli album di fine anni ’80 dei Kiss, piena di banalità a tratti volgari, volgari perché mediocri e banali, non perché di un presunto cattivo gusto.
È dal precedente “Pinewood Smile” (2017), tuttavia, che la scintilla in tutto o in parte sembra essersi riaccesa. Che sia per l’entrata a tempo pieno di Rufus “Tiger” Taylor (figlio d’arte del leggendario batterista dei Queen, adesso impegnato in quel bancomat ambulante del tour col giovane talento di American Idol) alla batteria? Che sia perché in fondo Ozzy Osbourne si è sempre sbagliato, e la sobrietà non fa cacare? Che sia perché Justin Hawkins è di nuovo in ottima forma?
Qualunque sia il motivo, i Darkness sfornano finalmente una buona prova, ancora più kitsch e cafona del solito, e stavolta pure un tantino blasfema dato che in copertina appare un Justin Hawkins crocefisso in una rappresentazione della passione di Cristo, che vede i suoi compari in vari altri ruoli. Ma no, niente blasfemia, dicono loro: parliamo solo di multiversi: e se Cristo non fosse mai morto? Beh, ok.
La title track è a mani basse il pezzo migliore del disco, riff perfetto e ritornello nel quale ritroviamo un uso del falsetto poderoso del frontman, fatto nella maniera che fu così proficua agli inizi della carriera, mentre il resto dell’album è un’altalena qualitativa sulla quale prevalgono decisamente i pezzi validi rispetto a quelli meno validi e che ha in Rock And Roll Deserves To Die e Heart Explodes i momenti migliori. Easter Is Cancelled generalmente tiene botta nei momenti più tirati, mentre tentenna quando si riaffoga nel mid-tempo.
Poi c’è quel discorso dello humor, che qui si ripropone preponderante: l’ottima ballata Deck Chair è una dedica a una sedia da ufficio scomparsa, mentre la canzone d’amore Heavy Metal Lover, nello stile della “Friday Night” sull’esordio, contiene dei (bellissimi) inserti metal e prende in giro la metallara media; siamo in piena modalità Tenacious D, la linea tra il pezzo musicalmente “serio” con testo vagamente umoristico e pezzo parodistico è definitivamente superata, e ci sarà di certo chi non gradirà.
I Darkness sembravano destinati all’oblio, ma sono risorti: probabilmente non ripeteranno mai l’exploit di “Permission To Land”, ma è bello sapere che c’è ancora qualcuno nel moribondo mondo del rock mainstream che offre qualcosa di valido.
(2019, Canary Dwarf / Cooking Vinyl)
01 Rock And Roll Deserves To Die
02 How Can I Lose Your Love
03 Live ‘Til I Die
04 Heart Explodes
05 Deck Chair
06 Easter Is Cancelled
07 Heavy Metal Lover
08 In Another Life
09 Choke On It
10 We Are The Guitar Men
IN BREVE: 3,5/5