L’ultima volta che avevamo ascoltato qualcosa che pure indirettamente fosse riconducibile all’universo Daughter era il 2019: Elena Tonra aveva dato alle stampe un disco umbratile ed elettronico senza quasi dare nessun preavviso e l’aria era quella di una svolta. Attenzione, nessuno stravolgimento copernicano dello stile: semplicemente in “Ex:Re” – così aveva intitolato il proprio progetto solista la Tonra – vi era stata una leggera virata verso il dream pop, con evidenti tessiture elettroniche, rispetto al folk prevalente del primo disco.
La scrittura del terzo disco – in realtà quarto, considerando la colonna sonora del ’17 – era già cominciata durante la realizzazione di “Ex:Re” e questo si percepisce sia dalle sonorità sia dalle tematiche affrontate; ma qui c’è dell’altro. Se la lista di lettere (o e-mail) da inviare agli ex come tentativo catartico di affrontare e risolvere i fantasmi del passato era stato il leitmotiv del disco della Tonra, in Stereo Mind Game questa velleità si evolve fino a diventare una sorta di analisi del passato, senza quel dolore fine a se stesso che aveva, invece, contraddistinto i lavori precedenti. Sembrerebbe un disco ottimista, e rispetto al passato lo è pure, ma fa comunque i conti con quello che non è andato (“Where were you going? In deep? Where were you, though When we needed you most?”, da To Rage).
Le esperienze raccontate in questo lavoro sembrano essere ecumeniche: le connessioni e le disconnessioni di cui si parla non sono altro che legami che si smaterializzano per la distanza – anche a causa di situazioni contingenti, vedi la pandemia – ma che poi si recuperano e si riconnettono dal vivo. Lo stesso titolo del disco – che viene da un verso del brano Party – parla di scherzi della mente che ci autoinfliggiamo, di autosabotaggio e di analisi della loro genesi: di eventi, insomma, che tendenzialmente accadono a tutti con un grado di consapevolezza più o meno elevato.
Quanto alla cifra musicale: le sonorità di “Stereo Mind Game” abbandonano definitivamente il folk degli esordi per approdare a territori sonori di confine, tra lo shoegaze meno affilato e il dream pop, non disdegnando inserti cinematici. Per intenderci: i Daughter in questo disco assomigliano a qualcosa che si trova a metà strada tra Beach House e Slowdive. Dal 2017, anno dell’uscita della colonna sonora “Music From Before The Storm”, la scrittura di questo disco è stata itinerante, realizzandosi tra l’Inghilterra (Devon, Bristol e Londra), gli Stati Uniti (California, Washington) e il Canada (Vancouver), mentre si sono occupati direttamente della produzione Elena Tonra e Igor Haefeli.
La setlist del disco mette in rapida successione i primi due singoli, Be On Your Way e Party, potenzialmente pronti a diventare dei classici della band, chiari esempi di dream pop orchestrale ed elettronico. Il suono liquido della chitarra di Dandelion, che sembra uscire da un disco dei The Cinematic Orchestra, è il tocco cinematico che arricchisce di toni chiari la tavolozza malinconica degli inglesi. Si parlava di orchestra; ebbene, questi arrangiamenti sono stati affidati dal trio alla compositrice Josephine Stephenson – già al fianco della Tonra in “Ex:Re” – il cui apporto è particolarmente calcato in Neptune, in Swim Back e nella finale Wish I Could Cross The Sea, in cui a combaciare è il senso di sospensione che si avverte.
Junkmail è quasi uno spoken word sorretto da suoni stratificati, mentre (Missed Calls) è un tentativo di costruire una canzone musicando dei messaggi vocali, riassemblandoli in modo da raccontare una nuova storia. Sul finire il disco diventa più rarefatto e lirico (“Wish I could cross the sea / Just to watch glistening / Far-off streets with you”, da Wish I Could Cross The Sea) raccogliendo quanto di buono seminato in questi anni, ora e forse nel futuro prossimo. La primavera è arrivata!
— 2023 | 4AD —
IN BREVE: 3,5/5