Berlino Ovest, 1977. S’era creato un legame particolare tra l’artista e la città, un legame che trascendeva la creatività. Rinchiuso negli studi di registrazione, collocati nei pressi del Muro che circondava per più di 170 km il perimetro dell’enclave federale, Bowie con altri cinque musicisti del calibro di Brian Eno, Carlos Alomar, ma soprattutto, con la chitarra di Robert Fripp, leader dei King Crimson, e con la supervisione di Tony Visconti, registrarono molte tracce, che, in parte, furono inserite in “Low” e, in parte, nell’album dell’anno successivo Heroes. Per l’impatto emotivo che suscita in chi ascolta, per l’accuratezza formale, per la bellezza dei suoni e delle liriche, “Heroes” è ritenuto un vero capolavoro da pubblico e critica, tanto più che costituì una sorpresa per lo stesso Bowie: “I dischi non sono mai quello che ti aspetti che siano”, dichiarò, per sottolineare il fatto che l’atmosfera creativa respirata nel corso della registrazione non è rispecchiata in toto nel disco, duro, rumoroso, dalle liriche definite “psicotiche”. L’apertura è affidata a Beauty And The Beast, che, ispirato solo parzialmente al film di Jean Cocteau, riprende le fila del plastic-soul, ma le mescola ad un rock virulento, forse contaminato dal lavoro che Bowie aveva fatto con Iggy Pop nella produzione di “The Idiot”. E’ un tipo di rock al contempo robusto e raffinato, come si può avvertire in Joe The Lion, ma la più pura espressione della sua intensità è messa in luce da una canzone entrata giustamente nella storia della musica, citata da numerosi artisti come una delle migliori, rifatta da numerosi artisti (per citarne alcuni, Philip Glass, che ha curato una riedizione sinfonica dell’intero album nel 1996, i Wallflowers di Jakob Dylan e gli italiani Quintorigo): Heroes. Fin dall’incipit, il brano incalza con ritmo e andamento maestoso e con un’irresistibile chitarra elettrica; la narrazione delle aspirazioni di fuga di due amanti prendeva spunto dalle scene alle quali Bowie poteva assistere dagli studi di registrazione, affacciati sulla terra di nessuno, recintata e minata, e sui soldati sovietici posti a guardia dall’altra parte: una coppia di innamorati si incontrava proprio ai piedi del muro. Era l’epoca in cui numerosi fatti di cronaca riguardanti le evasioni dei cittadini di Berlino Est venivano occultati: a partire dalla data del suo innalzamento, nel 1961, fino alla caduta nel 1989, si sono contati più di cinquemila fuggiaschi e 171 presone morte nel tentativo di scappare dall’Est. Il governo filosovietico di Honecker pose fine all’apertura verso occidente proprio nel 1977, anno in cui molti intellettuali e scrittori tedeschi furono espatriati dalla DDR, mentre nella Germania Federale il terrorismo politico toccò il vertice della parabola. Si respira, tuttavia, in “Heroes”, un’ansia più cupa della voglia di libertà, – qualcosa che causa brividi ed esaltazione al tempo stesso -, un’impressione che Eno descrive con queste parole: “Quando sono andato via avevo una sensazione su quel brano, suonava grandioso ed eroico. In effetti, avevo proprio quella parola in mente. Poi David mi portò l’album finito e c’era quella traccia e diceva ‘noi possiamo essere eroi’, ed io ero assolutamente… è stata una sensazione così strana, tremavo. Quando tremi è una reazione di paura, non è così?”. Eno ha raccontato anche che durante le sessioni di incisione, Bowie viveva di sola musica, immemore persino del cibo e dedicando tutto il tempo alla costruzione delle linee melodiche, cimentandosi con chitarre, tastiere e sassofono. Proprio il sax che introduce Sons Of The Silent Age ha sonorità narcotiche, esoteriche, e porta il brano verso Blackout, in cui la virtuosa chitarra di Fripp scandisce il rhythm & blues di rimembranza “sixties”. La composizione di V-2 Schneider, scandita dal giro di basso e dal sassofono, rappresenta un omaggio al musicista dei Kraftwerk, Florian Schneider (che in “Trans-Europe Express” aveva menzionato sia l’artista inglese che Iggy Pop), ma cela anche il morboso interesse di Bowie nei confronti della storia del Terzo Reich: V2 era la sigla con cui furono chiamati i missili lanciati dai tedeschi su Londra, durante la Seconda Guerra Mondiale. A Berlino, la sua “clinica”, la città che, – ironia della sorte -, era diventata nel ‘77 la “capitale europea dell’eroina”, Bowie cedette alquanto alle suggestioni dell’atmosfera di decadenza ideologica del nazionalsocialismo e visitò con notevole curiosità il bunker che ospitò Adolf Hitler nei suoi ultimi giorni, ma, in realtà, fu guarito dal fascino artistico espressionista, quello dei registi-pionieri Fritz Lang e Friedrich Murnau, del teatro di Bertold Brecht, la cui “Opera da tre soldi” costituiva un progetto vagheggiato dall’inglese in collaborazione con il regista Rainer Werner Fassbinder. Nonostante queste apparenti contraddizioni ideologiche, Bowie resta un artista apolitico. Quello che traspare dall’album intero è l’intenzione di trasmettere idee ed emozioni, come in Sense Of Doubt, composizione strumentale torva e cupa, che esprime adeguatamente lo smarrimento dell’autore nella sua ricerca verso il sacro e verso Dio (tema che Bowie aveva già affrontato nel precedente disco, “Station To Station”). In essa, si avverte fortissima l’elaborazione elettronica compiuta da Eno, al lavoro con tastiere e sintetizzatori. Gli ultimi due brani menzionati confluirono, insieme a “Heroes” e alla sua versione in tedesco, “Helden”, nella colonna sonora (curata dallo stesso Bowie) del film “Christiane F.”, tratto dall’omonimo libro dell’ex-tossica adolescente berlinese. Nella sua intervista autobiografica, Christiane aveva dichiarato un’ammirazione incondizionata per l’artista inglese, ragion per cui Bowie ebbe un cameo anche nel film, diretto da Uli Edel nel 1983. La sperimentazione musicale trova il suo apice nell’uso del koto, strumento orientale che si ascolta nella straordinaria Moss Garden, ispirata ai giardini di muschio della città di Kyoto, in Giappone. Elementi etnografici, come l’uso del sassofono per creare suoni mediorientali, spiccano anche nel brano Neuköln, che trae il nome dal quartiere di edilizia popolare alla periferia di Berlino, ad alta concentrazione di immigrati turchi, e in The Secret Life Of Arabia con i suoi magnetismi esoterici, con leggere percussioni sincopate, a metà tra lo slow-funk e la danza del ventre. Le canzoni di “Heroes”, registrate parallelamente a quelle di “Low”, sono come schizzi neo-impressionisti, che riescono a trasmettere contenuti e sensazioni in forma “rock”. Bowie stesso dichiarò: “Disegno la musica, la forma che deve avere. Devo disegnare il sentimento perché non posso spiegarlo”. Il suo successo fu oscurato lievemente solo dal terremoto punk di “Never Mind The Bollocks” dei Sex Pistols, ma Bowie fu nominato dalla rivista New Musical Express “artista dell’anno” e “Heroes”, che toccò il terzo posto sul podio della classifica annuale britannica, fu nominato secondo miglior album dell’anno.
(1977, RCA)
01 Beauty And The Beast
02 Joe The Lion
03 Heroes
04 Sons Of The Silent Age
05 Blackout
06 V-2 Schneider
07 Sense Of Doubt
08 Moss Garden
09 Neuköln
10 The Secret Life Of Arabia
A cura di Paola Villani