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Deafheaven – Ordinary Corrupt Human Love

Nell’ultima decina d’anni, le cose più interessanti in quel segmento sempre più eroso in cui sono ancora le chitarre a farla da padrone sono venute dalle commistioni con l’estremo, da quelle formazioni che hanno deciso di mischiare svariate declinazioni metal con pastoni che banalizzando potremmo far ricadere sotto la categoria – e le molteplici sottocategorie – “rock”.

I californiani Deafheaven in questo sono stati dei veri maestri, contribuendo enormemente all’affermazione di un’etichetta come quella del “blackgaze” (black metal + shoegaze), portandola alla ribalta nei cartelloni dei festival più fighi del globo, attirando le attenzioni delle webzine più fighe della rete, creandogli tutt’attorno un contesto anche estetico figo, lontano dal testosterone predominante nell’ambiente estremo ma anche dalle camicette perfettamente stirate dell’indie. Tanto da finire per farsi apprezzare anche da quella generazione hipster che se un amplificatore supera certi volumi prenota immediatamente una visita dall’otorino con l’apposita app dell’iPhone.

Ecco, i Deafheaven hanno fatto tutto questo, soprattutto con “Sunbather” del 2013 ma anche col seguente “New Bermuda” del 2015. Ma in quei due dischi il mischione di cui sopra era vero e concreto, all’interno dello stesso brano George Clarke e Kerry McCoy (cuore e cervello della band) mutavano anche più di una volta atmosfera e registro, erano al contempo vittima e carnefice, terra e aria, in una contrapposizione sonora che, come si diceva, ha favorito la loro rapida affermazione.

Con Ordinary Corrupt Human Love il punto di vista è un tantino diverso: qui ai Deafheaven non basta più far sapere che sono in grado di affettarci il cervello con scorribande black, provando subito dopo a riattaccarne i cocci con la delicatezza di soluzioni dreamy. Qui loro vogliono essere tanto l’una quanto l’altra cosa, ma non più in contemporanea bensì alternativamente. La tracklist dell’album è così ben più schizofrenica che nel passato: l’apertura di You Without End, ad esempio, è affidata a un pianoforte che ci si aspetta prima o poi si tramuti in fracasso e invece no, la voce femminile spoken fa il tempo buono, mentre quello cattivo spetta a uno screamo mefistofelico che accompagna le pieghe del pezzo.

Le tracce “brevi” del disco (e per brevi intendiamo quelle sotto i dieci minuti), ovvero la già citata opener, Near e Night People, sono brani in cui rispettivamente post rock, shoegaze e dream pop conquistano il proscenio. Le tracce “lunghe”, invece, sono quelle in cui i consueti climax alternati rilassano (si fa per dire) i Deafheaven in una comfort zone di black metal 2.0 che gli riesce benissimo (Honeycomb, Canary Yellow, Glint e Worthless Animal).

Il risultato è ancora una volta un album riuscito, in cui i Deafheaven si muovono orizzontalmente in uno spettro di possibilità che appariva limitato ma che invece sta dimostrando svariati margini di manovra, non perdendo la loro identità ma piuttosto specificandola ancora di più.

(2018, Anti-)

01 You Without End
02 Honeycomb
03 Canary Yellow
04 Near
05 Glint
06 Night People
07 Worthless Animal

IN BREVE: 4/5