Non c’è spazio per le pagine lasciate in bianco nella discografia dei Depeche Mode. La ragione di ciò, molto probabilmente, va rintracciata nell’estrema disinvoltura con la quale la band di Basildon riesce a colmare i periodi di vacatio tra una pubblicazione e l’altra (antologie, raccolte di remix, dvd dal vivo, uscite soliste dei suoi due leader maximi, Martin Gore e David Gahan, ndr) o, più semplicemente, nell’impiego di quella straordinaria “formula segreta” che fa sì che i nostri trasformino in oro qualunque cosa tocchino o, forse sarebbe più opportuno di dire, suonino. Poco importa, tuttavia. Fatto sta che il risultato è sempre il medesimo: ogni nuovo album dei Depeche Mode è la naturale conseguenza del precedente. La frase, detta così, sembrerebbe scontata e fin troppo banale, ma se per un attimo si prova ad andare oltre, e a volgere il pensiero ai non sporadici esempi di clamorosi autogol firmati da musicisti altrettanto prestigiosi nonché al relativo spiazzamento dell’ascoltatore, l’intero discorso è destinato, come per incanto, ad assumere lineamenti decisamente più nitidi, e perché no, anche più interessanti. I Depeche Mode, che piaccia o meno, producono dischi à la Depeche Mode, e lo fanno senza mai dover rinunciare a quel quid che giustifica la ricerca di un nuovo titolo, la realizzazione di un numero non meglio definito di video promozionali, la pianificazione dell’ennesimo tour mondiale. D’altronde, ci sarà pure un motivo per cui, nella ormai trentennale carriera di Gore, Gahan e Fletcher (intrapresa nel lontano 1981 con l’indimenticabile “Speak & Spell”), di passi falsi – ad eccezione di alcuni episodi isolati di “Exciter” (2001), l’unico lavoro in cui l’assenza di Alan Wilder si percepisce realmente – non ve ne sia la benché minima traccia. Presupposti, quelli appena accennati, che donano a Sounds Of The Universe, capitolo numero dodici della storia dei Depeche Mode, una struttura sonora pressoché perfetta: un lungo rettilineo illuminato dall’intensità vocale di Gahan – qui, come era già accaduto in “Playing The Angel” (2005), impegnato anche nella veste di autore di ben tre brani: Hole To Feed, Come Back, Miles Away / The Truth Is – e tracciato dalle geometrie strumentali di Gore e del sempre presente Fletcher, che a morbide ballate, ora impreziosite da barbagli soul (In Chains) ora accarezzate da una ventata di mestizia (Jezebel), alterna repentine inversioni di marcia (Fragile Tension e Wrong) ed energiche cavalcate elettroniche (Spacewalker e In Sympathy), il tutto senza mai perdere di vista la stella che indica la via maestra. Ciò nonostante il trio devia concedendosi il lusso di azzerare il presente, osando una comparazione, in fieri, tra ciò che è stato (Peace) e ciò che verrà (Corrupt), concetto che può essere agevolmente spiegato con la seguente massima: “partire in orario dal futuro per essere sempre puntuali nel passato”.
(2009, Mute / Emi)
01 In Chains
02 Hole To Feed
03 Wrong
04 Fragile Tension
05 Little Soul
06 In Sympathy
07 Peace
08 Come Back
09 Spacewalker
10 Perfect
11 Miles Away / The Truth Is
12 Jezebel
13 Corrupt
A cura di Vittorio Bertone