Partiamo da una considerazione: questo ragazzo è veramente un sacco di tempo che non fa un disco buono. Gli ultimi due album, “Mala” (2013) e “Ape In Pink Marble” (2016) sono due dischi di una bruttezza deprimente e che si riconosce appartengano allo stesso autore del periodo sotto l’egida della Young God di Michael Gira solo perché lo capisci, che quel ragazzo lì è lo stesso che non ha più nessuna idea e neppure quell’animo puro che tu avresti voluto restasse intaccato per sempre.
Non vogliamo scadere in una facile retorica, tuttavia, quindi è giusto dire che qui la purezza non c’entra nulla con quello che può significare business, e ammesso stessero così le cose non ci interessa. Sicuramente quella leggerezza che all’inizio appariva solo istinto poi è diventata una sorta di roba di plastica, una melassa indie insopportabile e lagnosa, ma questo è inevitabile, perché d’altro canto Devendra Banhart è lagnoso. Le sue pretese intellettuali e il suo rigore tardo hippie lo rendono a tutti gli effetti una vera e propria figura caricaturale, cosa che a lui evidentemente deve andare bene così: infatti prosegue inesorabile la sua strada verso questo baratro, restando in questo caso attaccato al ciglio del burrone solo in calcio d’angolo.
Ma è un disco che Devendra Banhart dedica alla figura materna. Usa una parola universale, appunto “Ma”, proprio a volere ricalcare il carattere internazionale cui guarda con questa opera che, secondo la sua filosofia, non avrebbe nessun confine nel proporre un cantautorato leggero, citazionista, accattivante e ruffiano, eppure allo stesso tempo in qualche maniera pretestuosamente e presuntuosamente impegnato: la “mamma” nel suo caso sarebbe infatti allo stesso tempo la figura materna, la musica e il Venezuela che ama tanto, ma che non può aiutare a causa di Maduro. Il suo lato femminile.
Pure su questo aspetto preferiamo glissare sinceramente, badiamo invece al contenuto artistico. Il disco esce ovviamente per la Nonesuch, anticipato da un singolo Kantori Ongaku, un altro pezzo in giapponese con cui omaggia il musicista Haruomi Hosono, che oltretutto è stato ed è uno dei componenti storici degli Yellow Magic Orchestra. Scelte sofisticate tanto quanto la collaborazione con Cate Le Bon (Now All Gone) e una gigante come Vashti Bunyan (Will I See You Tonight), definita come “archetipo della madre” e già sua collaboratrice ai tempi di “Rejoicing In The Hands”.
Come al solito Devendra pesca nella cultura pop anglosassone, quando cerca in generale di sembrare una sorta di Al Stewart, oppure caccia fuori quello stile ruffiano degno del peggior Lou Reed come nella già citata Kantori Ongaku oppure in The Lost Coast, tanto quanto gli piace riprendere contenuti della musica sudamericana. L’imprinting di pezzi come Carolina, Abre Las Manos, October 12 è chiaramente bossa nova. Ma più in generale si può dire che si tratta sicuramente di un disco dai toni caldi, che vuole essere per forza seducente come una hawaiana con il suo gonnellino di paglia che canta “Honolulu Baby” con la voce di Oliver Hardy.
La verità è che se proprio occorre fare un parallelo, questo disco andrebbe paragonato a un film di Wes Anderson. Un brutto film di Wes Anderson. Quindi piacerà ai buoni e ai cattivi, agli intelligenti e agli stupidi. Ma se scavi, sotto non ci sta proprio niente e il fatto che sia appena meglio dei lavori precedenti gli vale giusto il merito di sapere come si apra un paracadute. Colorato ovviamente. Non sia mai.
(2019, Nonesuch)
01 Is This Nice?
02 Kantori Ongaku
03 Ami
04 Memorial
05 Carolina
06 Now All Gone
07 Love Song
08 Abre Las Manos
09 Taking A Page
10 October 12
11 My Boyfriend’s In The Band
12 The Lost Coast
13 Will I See You Tonight
IN BREVE: 1,5/5