Gli ultimi anni per quello che riguarda lo shoegaze sono stati controversi: da una parte abbiamo assistito al ritorno dei grandi del genere, dai My Bloody Valentine agli Slowdive, dai Jesus And Mary Chain ai Ride, senza considerare il riscontro positivo di realtà pure storiche come i Telescopes (il gruppo di Stephen Lawrie festeggia quest’anno il trentennale di “Taste” e guida il filone dei gruppi più noise nel panorama della Fuzz Club Records); dall’altro lato il termine è stato sempre più considerato in maniera deviata, tanto che in effetti si fa una gran confusione tra lo shoegaze e quello che è più banalmente dream pop. I DIIV, formazione di Brooklyn, New York capitanata da Zachary Cole Smith, non fanno a questo punto parte di nessuna delle due casistiche nominate e questo, va detto, costituisce una nota di merito perché sfuggire a un’etichetta va sempre bene e in fondo lo shoegaze nel loro caso si può considerare solo come uno dei caratteri del sound che viene proposto, con quella che finalmente si può definire come “decisione” in questo ultimo lavoro discografico, Deceiver.
Il rischio per il gruppo, dopo la pubblicazione dei primi due incerti album, il “chiacchiericcio” eccessivo legato alla relazione di Zachary con la popstar Sky Ferrerira e i suoi annosi problemi per l’abuso di stupefacenti, poteva essere quello di schiacciarsi a un modello facile come quello di Mac DeMarco e Wild Nothing, compagni di etichetta nel roster della Captured Tracks di Mike Sniper (che propone sempre roba accattivante, ma la cui qualità è più o meno buona a seconda dei singoli casi), ma già ascoltando le canzoni che ne hanno anticipato l’uscita si poteva capire come fossimo davanti a una possibile svolta.
Adesso non possiamo sapere se e quanto abbia contribuito a ciò il fatto che lo stesso Zachary abbia passato, nel periodo precedente la pubblicazione del disco, un periodo in riabilitazione oppure no, ma “Deceiver” è una delle migliori cose uscite nell’alternative rock nel corso di quest’anno: è un disco ben suonato e con una buona inventiva, una scrittura sensibile e soprattutto una freschezza e una immediatezza che sono travolgenti.
Pezzi come Horsehead e Like Before You Were Born ci riconciliano con la natura autentica dello shoegaze, così come l’intensità di tracce più tirate come Taker, For The Guilty e soprattutto Blankenship. Molto bene anche il sound shakerato di Skin Game, gli strappi di Between Tides e lo shoegaze “bubblegum” di The Spark. Proprio quest’ultimo è forse il pezzo migliore dell’album, con le asimmetrie ricche di fuzz e di riverberi di Lorelei e la opera magna Acheron, che ha la stessa originalità che alla metà degli anni Novanta si attribuiva a un album come “The Bends” dei Radiohead.
Questo qui è un disco che ha la forza di far cambiare completamente idea a chi fino a questo momento non ha degnato i DIIV della giusta considerazione e che non potrà fare altro che esaltare chi li conosce e li ama già e chi li ascolterà per la prima volta: non un album fondamentale, forse, ma quella di “fondamentale” è una definizione che molto spesso lascia il tempo che trova e che dopotutto non conta praticamente nulla innanzi al fatto che, alla resa dei conti, in quest’album non c’è neppure una canzone brutta e i riff sono tutti azzeccati. Ce n’è abbastanza per dire: molto bene, bravi.
(2019, Captured Tracks)
01 Horsehead
02 Like Before You Were Born
03 Skin Game
04 Between Tides
05 Taker
06 For The Guilty
07 The Spark
08 Lorelei
09 Bankenship
10 Acheron
IN BREVE: 3,5/5