Prima di introdurre Dirty Beaches è opportuno fare una premessa: se vi aspettate una band modaiola, dal suono ripulito, e magari anche un po’ (finto) alternativa, il mio consiglio é quello di smettere di leggere e cercare altrove. Se invece vi siete decisi a continuare, buon per voi: del resto Badlands, il primissimo album della one-man band Dirty Beaches, è uno dei più accattivanti e sorprendenti fra gli esordi del 2011. Alex Zhang Hungtai é il trentenne che si cela dietro questo strano nome d’arte: nonostante egli si definisca apolide (è nato a Taiwan ma è cresciuto alle Hawaii e poi in Canada), l’origine della sua musica è chiaramente individuabile nel rock’n’roll americano degli esordi. Non é di un emulo di Elvis che stiamo parlando (bisogna ammettere però che il tono di voce di Alex, talvolta, ci va parecchio vicino), perché il suo intento é quello di omaggiare la musica anni ’50 e le sue atmosfere: ecco perché “Badlands” si presenta come un magnifico ibrido di suoni graffianti, evocazioni di road movie alla Lynch e melodie tormentose, anche se il vero tocco di classe é dato dall’audacissimo uso del lo-fi. L’album può essere visto come due facce della stessa medaglia: se nelle prime quattro tracce Dirty Beaches mostra di sapersi destreggiare come in una sorta di trance, fra suoni rantolanti, nella seconda metà del disco cambia decisamente tono per dar vita ad armonie più dolci eppure strazianti come nel miglior Roy Orbison. Lo stesso può dirsi per le tematiche e per i testi, come in effetti anticipato dai titoli dei diversi pezzi: “Badlands” é una sorta di viaggio, come di quelli dei road movies, che parte in quarta (Speedway King, Horses), assapora le interminabili strade d’America (A Hundred Highways) e poi rallenta fino a fermarsi (True Blue, Hotel). Esauriente é, in questo senso, il video del singolo “Speedway King”, diretto dallo stesso Alex, che spiega in modo efficacissimo l’atmosfera che pervade l’album: il buio nerissimo della strada, le luci di Las Vegas e il tributo a Elvis. Tributo che non manca di ripetersi anche altrove, come ad esempio nell’incalzante Sweet 17. L’uscita di “Badlands” ha probabilmente fatto storcere il naso agli hipster, ma poco importa: l’album omaggia in maniera personale ed efficace il rock’n’roll degli anni ’50. Pur non essendo il primo del suo genere, Dirty Beaches ha il merito di distinguersi degnamente da chi, oggi, riporta in vita a tutti i costi il synth e le sonorità anni ’80, evocando invece atmosfere e suoni ricercati con un sapiente dosaggio del noise in bassa fedeltà.
(2011, Zoo Music)
01 Speedway King
02 Horses
03 Sweet 17
04 A Hundred Highways
05 True Blue
06 Lord Knows Best
07 Black Nylon
08 Hotel
A cura di Sara Russo