“Siberia” aveva rappresentato, nel 2005, un capitolo più che dignitoso di una storia interrotta più volte e più volte ripresa e portata avanti a singhiozzi, a cominciare da quel 1990 in cui gli Echo & The Bunnymen avevano deciso di porre fine alla propria avventura. “Siberia” è stato come un fratellino minore cui vengono fatti indossare gli abiti in disuso del maggiore. Per dirla in poche parole: non sarà stato certo un capolavoro, ma erano Ian McCulloch e compagnia bella quelli che l’avevano inciso, e si sentiva. Quattro anni dopo, invece, ecco venir fuori dal cilindro dei Bunnymen questo The Fountain. Che qualcosa non sia andata per il verso giusto lo si evince già dalla copertina dell’album; il colpo d’occhio ci presenta un rosso sgargiante che mai s’era visto nella storia ormai trentennale della formazione inglese. Perché, parliamoci chiaro, gli Echo & The Bunnymen sono una band che la wave l’hanno cavalcata tutta, fino a riva, hanno sempre avuto intorno colori ed ambientazioni scure e/o rarefatte. Il rosso stona proprio accostato al loro nome. Tralasciando le recriminazioni cromatiche, che lasciano ovviamente il tempo che trovano, il rosso vivissimo dell’artwork appare nulla in confronto al contenuto del lavoro. Le dieci tracce di “The Fountain”, per quanto brillino dell’evidente e rodata sinergia artistica fra Ian McCulloch e Will Sergeant, mancano totalmente di quella spruzzata di magia che dev’essere l’ingrediente principale di ogni brano degli Echo & The Bunnymen che si rispetti. Giocano a non fare se stessi, si appigliano a melodie di band che a loro volta si erano appigliate ai vecchi Bunnymen (solo un nome: Coldplay), e non è un caso che uno di questi ragazzi folgorati dal McCulloch versione eighties faccia da guest nella title-track: Chris Martin, infatti, sembra aver messo mano su “The Fountain” decisamente più che nella sola traccia in cui si ritrova accreditato. Poco importa, poi, se secondo il buon Ian l’album dovrebbe fregiarsi del miglior pezzo da lui mai scritto (The Idolness Of Gods), dato che si tratta molto più semplicemente di una ballata senza infamia e senza lode come McCulloch potrebbe scriverne a decine. La sola Drivetime pone l’accento su una prestazione discografica altrimenti davvero deludente. Se di questa pasta devono esser fatti gli Echo & The Bunnymen di oggi, tanto vale accontentarsi dei lavori solisti – e senza pretese – di Ian McCulloch, pur sempre una delle migliori voci degli anni ’80.
(2009, Ocean Rain)
01 Think I Need It Too
02 Forgotten Fields
03 Do You Know Who I Am
04 Shroud Of Turin
05 Life Of 1,000 Crimes
06 The Fountain
07 Everlasting Neverendless
08 Proxy
09 Drivetime
10 The Idolness Of Gods
A cura di Emanuele Brunetto