Quante volte abbiamo sentito classici immortali immolati sull’altare dell’omaggio e della rivisitazione? Tantissime, troppe volte. Se poi si parla di musica italiana, sono stati così pochi gli album che davvero hanno cambiato qualcosa da far sì che questi siano relegati direttamente in un Olimpo che non andrebbe neanche minimamente sfiorato.
E se invece, per una volta, la cosa potesse avere un senso? Se riuscisse bene? Il disco in questione è la La voce del padrone di Franco Battiato, praticamente un monolite che il solo pensare che qualcuno possa mettergli le mani addosso fa venire i brividi. Il temerario risponde invece al nome di Fabio Cinti, che compie l’impresa con una gentilezza che va oltre il semplice e significativo sottotitolo del suo riadattamento.
La vena sperimentale che aveva l’illuminato Battiato del 1981 qui non traspare, se non sotto il coerente aspetto lirico: il lavoro svolto da Cinti riassesta il disco eliminando la parte sintetica e sostituendola completamente con archi e pianoforte, donandogli una veste orchestrale nuova nonostante la natura classica del mezzo scelto. Il cantato di Cinti è davvero molto vicino a quello di Battiato ma senza sforare nell’emulazione, mentre l’andamento dei pezzi resta tale e quale a quello degli originali, riconoscibilissimi nonostante tutto.
Il risultato raggiunto da Cinti va oltre ogni più rosea previsione, con un lavoro affatto invasivo l’opera di Battiato viene delicatamente portata in una dimensione cameristica che la rende soffice e godibilissima, forse una versione meno ficcante dell’originale ma anche per questo più personale. Tutt’altro che banali cover, in tanti dovrebbero prendere esempio prima di andare a toccare mostri sacri.
(2018, Private Stanze)
01 Summer On A Solitary Beach
02 Bandiera bianca
03 Gli uccelli
04 Cuccurucucù
05 Segnali di vita
06 Centro di gravità permanente
07 Sentimiento nuevo
IN BREVE: 3,5/5